Nel 1896 il dott. Pierluigi Mozzetti stampava a Treviso “Il programma del comitato veneto per il decentramento e le autonomie”
Ecco l’incipit del documento:
“Nel novembre 1894 concludendo un breve cenno sull’autonomie dei corpi locali, da queste stesse colonne io domandava ai Veneti –di fronte al movimento che si solleva nelle altre Regioni d’Italia fimo a quando voi dormirete? –
Non la mia povera voce, ma la coscienza delle classi dirigenti sempre più affermatasi nel senso desiderato, ma l’opera feconda e solerte di un Egregio, cui la riuscita dell’ardua impressa non apparve impossibile, poterono finalmente avviare anche nella nostra Regione un serio, vivace movimento allo scopo di ottenere una sollecita e larga applicazione dei principi di autonomia e decentramento negli Enti locali.”
Nel programma troviamo sei capitoli: i comuni, le provincie, le regioni e i consorzi interprovinciali, la tutela dei corpi morali, i governi regionali e le finanze locali.
Il progetto dedica, accanto al ruolo dei comuni e delle province, ampio spazio al dibattito in corso sulla necessità di istituire la Regione come “unione di molte province per tradizioni, interessi, posizione affini”.
Già, ma il concetto di Regione è “il tremendo spauracchio dei moderni bigotti dell’unità nazionale, i quali arricciano il naso al solo sentirla, quasicchè il concetto che essa esprime non esistesse diggià ab antiquo, in genito nell’istessa costituzione fisica dell’Italia, e quasicchè il constatare amministrativamente le differenze, gli squilibri che distinguono in suddivisioni la nostra penisola corrispondesse addirittura a richiamare l’odiato straniero”.
E allora invece di Regione c’è chi tenta di far passare compartimento, sul modello del francese departement.
E su questo Mozzetti insorge:
“Noi Veneti non dobbiamo né possiamo intanto adattarci a subire una parola, che può forse non sembrare del tutto impura dove fiorì la repubblica cisalpina, ma che non ha corrispondenza alcuna né nella convenienza né nell’essenza delle cose, né nella convenienza dei fatti……..
Quale parte d’Italia può vantare né suoi fasti la gloriosa ed immacolata Storia della nostra Serenissima di S. Marco? E’ risalendo a quelle invidiate, ma giammai emulate memorie, che si fortifica, si consolida il pensiero anche moderno; per cui fonte di ammaestramenti ed argomento di imitazione ai pubblici amministratori, nel limite delle mutate contingenze, può essere il ricordo del passato.”
E più avanti:
“Il sempre compianto Minghetti fino dal 1861 abbia messo fuori la proposta, che Egli voleva già innestare nella revisione della legge comunale e provinciale che l’Italia venga amministrativamente divisa in Regioni essendo questa la forma da Lui ritenuta la più consentanea , la più conveniente alla molteplicità ed alle enormi differenze esistenti nella nostra penisola per suddivisioni fisiche del territorio, per antichissime diverse consumanze, per lingua, per fortunatamente distrutte variate dominazioni politiche.
Questa idea dell’illustre statista ottenne largo consenso dai migliori di quel tempo, fra i quali il Ferrari ed il Cattaneo, ma le insorgenti aspirazioni unitarie ed il timore di danneggiarle la fecero abbandonare; resta ancora a vedersi con quanto vantaggio della Nazione”.
Si passa poi alla condanna del centralismo romano:
“Intanto le leggi italiane, accumulatesi l’una sull’altra con progressione geometrica, ispirandosi al più accentuato sistema di accentramento hanno portato nelle mani del Governo tutta la somma delle pubbliche funzioni e dei
pubblici uffici, ed hanno di continuo trattato alla stregua tanto il settentrionale Veneto, che la quasi Africana Sicilia, costringendo quindi o quello o questa (ma specialmente quello) a subire tiranniche imposizioni di inadatti e pessimi provvedimenti.
Dagli orari e dalla durata dell’anno scolastico, alle misure di precauzione per l’igiene, ed a molte disposizioni della stessa legge provinciale e comunale, si ha una intera legislazione fatta a favore di questa e di quella Regione ed estesa coattivamente a tutto il Regno.”
Ed infine una proposta che assomiglia a quella elaborata dalla Fondazione Agnelli un secolo dopo:
“Tutti sanno che le regioni della penisola, una più, una meno a seconda che si suddivide in due o tre parti l’ex Regno delle Due Sicilie, sono undici: Piemonte, Liguria, Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana, Marche ed Umbria, Lazio ed Abbruzzi, Napoletano, Sicilia, Sardegna, e ad ognuna di tali Regioni dovrebbe corrispondere quel gruppo di Province destinato a formare un nuovo corpo locale. Ogni esclusione od ogni inclusione forzata sarebbe una cosa anti-naturale e dannosa.”
Il programma del Comitato veneto prevedeva anche la creazione di due categorie di comuni, ovvero comuni autonomi e comuni tutelati, l’affidamento della scuola popolare alle provincie, nonostante i timori dovuti al perdurare del dissidio tra Stato e Chiesa, la soppressione dei consigli di prefettura, delle sotto-prefetture e dei commissariati distrettuali. Quindi una riforma radicale dei comuni e un aumento delle competenze della provincia a cui avrebbe dovuto essere affidata anche la tutela e la sorveglianza dei comuni in materia scolastica, la sanità pubblica, i provvedimenti per l’agricoltura.
Nonostante le divergenze programmatiche e di metodo — “intransigenti sul principio, transigentissimi sui mezzi” -, nel maggio del 1897 i tre Comitati del Piemonte, della Lombardia e del Veneto raggiunsero un’intesa relativamente ai consorzi tra i comuni e tra le provincie. Nell’ottobre successivo il Comitato veneto approvò definitivamente anche lo schema di riforme che partiva dal presupposto che il comune, la provincia e la regione fossero circoscrizioni amministrative dello Stato; secondo questa prospettiva il decentramento avrebbe assunto un carattere amministrativo di tipo sostanziale, liberando le piccole comunità locali | dall’ingerenza politica, oltre che burocratica, dei ministeri ed “alle influenze del parlamentarismo” e la regione non sarebbe stata considerata una semplice circoscrizione, ma un “ente autarchico dotato di personalità propria”.
Pierluigi Mozzetti nasce a Venezia il 5 febbraio 1868, da famiglia proveniente dalla provincia di Treviso; il padre è Angelo, stimato avvocato, la madre è Maria Monterumici, famiglia originaria dell’Emilia ma che ben presto si è imposta nella Marca come una delle famiglie più in vista per l’impegno politico e sociale, il nonno di Pierluigi, Luigi Monterumici fu presidente dell’Amministrazione provinciale di Treviso.
Nel 1887 si iscrive a giurisprudenza a Padova e nel luglio del 1891 si laurea con un tesi dal titolo “La Giunta Provinciale Amministrativa”.
Dalla “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” si apprende che viene nominato cavaliere il 25 gennaio 1913 e cavaliere ufficiale l’8 maggio 1933; muore nel 1940.
Ettore Beggiato
Autore di “Qustione Veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze”