I Panetto sono numericamente la famiglia più estesa dell’agro di Arborea, tutti facenti parte dello stesso albero genealogico, con una storia di lavoro e di emigrazione in Sardegna praticamente identica. Arrivati chi dalla provincia di Rovigo, chi da quella di Venezia, i “Panetti”, detti Giomo, sono tutti originari di Grisignano di Zocco in provincia di Vicenza. Sol che ad Arborea ghe sarà otto/nove aziende agricole. La me fameja la xe rivà la vigilia de Nadal del 1930. È Claudio, noto “Panocia”, a raccontarmelo. Dopo anni di lavoro nel podere di famiglia alla strada 8, oggi vive in centro ad Arborea. Se si considera che nella piana ci sono circa 150 aziende si può capire la dimensione e la proporzione della loro presenza.
Lo incontro un pomeriggio di fine febbraio in compagnia di Luana Rigolli, da Mantova alla Sardegna per la realizzazione di un servizio fotografico sulla comunità sardo-veneta di Arborea. Bruno, il padre di Claudio, era nato a Fossò (Ve) il 15 dicembre del 1914, ma era partito con la famiglia da Ceregnano (Ro). Nessun che li ha contattai da qua. I vegneva tutti da su. I entrava in casa e diseva “vu tu andare in Agro Pontino, in Libia o in Sardegna?”
I Panetto non fanno parte del gruppo di 100 braccianti pionieri giunti in prova dal Polesine nel 1928, ma rientrano comunque tra quelle famiglie arrivate nella prima fase della colonizzazione e impiegate anche nei lavori di bonifica. La prova di quanto mi racconta è una bellissima fotografia in bianco e nero dei lavoratori veneti di Mussolinia, tra cui il padre. È immortalata la prima trebbiatura del grano per conto della Società Bonifiche Sarde. Me mare la me disi sempre quei con la camisa bianca iera sardi, i veneti invece i lavorava con la camisa de un altro color e col gilet.
La mamma è Cloe Marchese, nata a Fossalta di Piave e che oggi ha 98 anni. Appartiene a una delle tante famiglie di “passaggio” nella bonifica, arrivate nel ’31 e ripartite ancora prima della seconda guerra mondiale nel 1940, con alcuni famigliari morti di malaria. I Marchese abitavano alla strada 8, nel podere in cui oggi vive la famiglia Stevanato. Tutti, eccetto Cloe, sono tornati in Veneto. No go capio perché el pare de mama xe vignuo qua, perché lu iera fattor de una grossa azienda agricola a San Donà de Piave. E infatti el vecio Ruggiu – capofamiglia di uno dei pochi nuclei sardi di mezzadri presenti fin dalla bonifica – me diseva sempre: “tuo nonno mi ha insegnato a fare l’agricoltore, perché noi pastori, abituati con le pecore, non sapevamo lavorare il terreno”.
Dopo la riforma agraria del ’55 parte degli ex mezzadri diventati assegnatari decidono di lasciare la Sardegna per occuparsi nelle fabbriche della Lombardia e del Piemonte. Le punte massime si registrano tra il ’60 e il ’62. Quando xè rivà el boom delle industrie tanti xè andai attorno alla Fiat e tanti altri nel Varesotto. I miei cugini Destro iera invece za a Settimo Torinese nel ’52. Rimangono così numerosissimi poderi incolti, disponibili per chi ha voglia e forza per lavorarli. Oltre a nuove famiglie sarde che arrivano da altre parti della Sardegna, in particolare dal nord dell’isola, i nuclei patriarcali veneti rimasti ad Arborea si sdoppiano per prendere possesso dei terreni liberi o chiedono di accorparne uno al loro. Qualchidun che xè andà via se ga anca pentio e qualchidun nol l’è pi tornà. Noaltri quando che xè andai via gli Andreotti nel ’63, anca lori a Torino, ghemo fato domanda per torse anca el podere de fianco. Gavevimo 16 ettari e gli Andreotti 15. Me fradei chiedeva a me pare: “chi che lavora pi de 30 ettari? Si tu mato?”. E me papà ga combattuo con noi fioi. E ga dito: “ghemo za un trattore, al manco avemo do stae e sette fioi”. Avere nel ’64 31 ettari iera tanto.
Il rapporto con la cultura veneta, almeno per chi fa parte della seconda generazione, non si è mai interrotto. Claudio, come ormai la stragrande maggioranza dei sardo-veneti di Arborea, nella terra dei genitori non ci ha mai vissuto, ma tra le mura domestiche e con gli amici non ha mai rinunciato a parlare nella lingua con cui il padre e la madre gli hanno insegnato a lavorare. I ragazzi zovini sotto i 40 anni che i parla in veneto xe restai in pochi. Anca se qui te fa fatica trovar un che parli in sardo. Xè più facile trovare un sardo che parli in veneto, come Giomaria Urgu (ride). Il nostro veneto, queo dei Panetto, xè pi vicin al padovano che al venessian, perché me mama che xè dall’altra parte de Venessia ea parla diverso, anca se ormai la parla el diaeto de Arborea come noantri.
Come testimoniato da altri ex mezzadri il veneto parlato ad Arborea è differente da quello delle zone di origine dei coloni, quasi una nuova variante. Qui però se ga perso tanto de veneto, ma non per il fatto che molti i ga sposà dee sarde o persone locali, quanto perché molti nol ga avuo continuità, anche sul magnar e su tante robe. Nissun dei Panetto però ga mai brusà la vecia. Altri vicentini come i Sardo sì. Lori xè rivai nel ’38. La famiglia Sardo è peraltro l’ultima famiglia giunta dalla provincia di Vicenza. La seconda fase della colonizzazione dell’agro, dal ’35 al 40, aveva infatti interessato quasi esclusivamente famiglie della provincia di Treviso.
I Panetto avevano però una tradizione di suonatori. Sonava me papà e Giorgio me fradeo. Nol iera el mandolin, ma la mandola. Domando se hanno mai avuto la vite di bacò, il vino che i coloni si erano portati dal continente. No, avevamo classica uva da tavola. Bea vecia, granda e davanti al portego. Mio papa nol iera amante de far el vin.
Chiedo a Claudio se si percepisce più veneto o sardo. Mi risponde che uno di sessanta anni nato in Sardegna non può dirsi totalmente veneto. Anca se identificarse coi sardi xè fatiga, perché xè diversi da noantri. Sul magnar me sento internazionale. Me piasi sperimentar praticamente tutto (ride). Claudio racconta che lo stoccafisso lo fa arrivare appositamente da Mestre, per sé e per altri. Solo quest’anno ne ha distribuito 48. Se sentimo veneti, ma anche sardi, perché siamo nati qua mi dice Giuliana Fettamelli, moglie di Claudio, appena entrata in casa. Parlar el veneto me piase – riprende Claudio – però voria sentirme pi sardo. I disi che il sardo xè pi individualista, ma su certi comportamenti trovo più individuale il veneto, più bravo forse a lavorar con gli altri, ma il sardo più solidale con i problemi del vicino, ma disemo che tutti ghemo pregi e difetti.
In passato la convivenza tra continentali e sardi, soprattutto con quelli del circondario, non è stata semplice, anche per il fraintendimento circa gli usi delle rispettive culture di riferimento. Alora le squadre de lavor iera divise. I nostri veci i ga fato tante volte a bote coi sardi. Me mamma quando partiva col minestron, dalla otto per portarlo a me papà a Linnas per magnar, andava in bicicletta. Ma figurati…con le cotoe (gonne) sotto al genocio?In bicicletta? Si tu mato? Guai! I sardi che fisciava drio e ghe diseva de tutti i colori, parché alora le femene sarde i gavea le cotoe al calcagno e nol le andava in bicicletta. I nostri veci sentia de pi la distanza coi sardi. Mi invece no. Go studià dai salesiani e go frequentà sia i sardi che i spiassaroti. Per “spiassaroti” molti arborensi intendevano, e intendono ancora oggi ironicamente, gli abitanti del centro. All’epoca più della metà della popolazione dell’agro abitava in campagna, e allo storico conflitto tra culture diverse, se ne aggiungeva un altro più sotterraneo, di classe questa volta. Una sorta di muro invisibile che divideva il mezzadro dall’impiegato. Quando el boaro o il contadin iera in centro per far i documenti el iera trattà da povero. Dopo xè sta il passaggio opposto, perché il contadin o il boaro, che nol iera pi mesadro, quando ga scuminsià a star ben el gavea il ragazzotto a disdotto anni che lavorava in casa con patente e macchina. El fiol de un impiegato, invese, el fasea fatiga.
Tra le varie cose che però riportano i Panetto alle origini c’è la storia di una statua che la famiglia di Claudio custodisce dai tempi del primo conflitto mondiale. Non so se te ò conta la storia della statua de legno de Sant’Antonio da Padova che xè alla 8. Xè a casa de Giorgio me fradeo. Xè anca vignù un frate da su che volea portarsea indrio. Durante la Grande Guerra la nonna di Claudio aveva in gestione un deposito della polenta a disposizione dei soldati. Un giorno si fermò un gruppo di militari romani, che aveva con sé una statua di Sant’Antonio. Era stata recuperata sul fiume Piave nella convinzione che si trattasse di un uomo ferito (lo stesso simulacro presenta ancora oggi alcuni fori da proiettile). Cussì questi soldai i se ga sentà, i ga magnà. E dopo, quando ga dovuo andar via, i ga dito: “quando torniamo indietro la riprendiamo”. Xè sta poi la disfatta de Caporetto e nol xè tornà gnanca un. E cussì xè arrivà in Sardegna. No ghemo mai scoperto de chi che iera. El frate padovan ga dito che dovea esser de qualche capitel.
Oggi sardi e veneti rappresentano un’unica comunità. Tanti arborensi si sono uniti in matrimonio con le sarde e tanti sardi si sono sposati con le venete di Arborea, soprattutto grazie al rimescolamento dei poderi negli anni ’60. Sono quindi cambiati gli usi, i costumi, le persone e le pronunce. È sempre più difficile sentir parlare di sorgo, formenton, biava per indicare il granoturco. Ora lo chiamano mais. Rimane Sant’Antonio, giunto dalle rive del Piave, che dopo tante tribolazioni continua a essere venerato dai veneti, ma anche da tanti sardi.
di Alberto Medda Costella