Mio padre a Castel Goffredo faceva el famej, mi dice Rina Morozzo. È da tempo che Gianni Sardo, nipote della signora e attuale presidente della Cooperativa Produttori di Arborea, mi parla di una zia che vive ad Oristano e che ha sposato un fratello del padre. Se i Sardo di Arborea sono originari del Vicentino, i Morozzo fanno parte invece di uno dei nuclei di famiglie mantovane, della provincia lombarda più prossima al Veneto, presenti ad Arborea fin dal periodo della bonifica.
Decidiamo perciò di farle visita insieme un pomeriggio di maggio inoltrato. Ad accompagnarci un sole vivo, diverso da quelli pallidi e fiacchi spuntati nelle ultime settimane negli scampoli di tregua dalla pioggia. La primavera del 2018 passerà alla storia per l’acqua elargita fin troppo generosamente da Madre Natura. Le dighe sono piene e i tecnici, preposti al loro controllo, per alleggerirle sono costretti a programmare rilasci ed esondazioni controllate. Anche i raccolti hanno risentito dell’abbondanza e qualcuno è andato perduto.
Enrico Morozzo, il padre di Rina, se fosse ancora in vita, avrebbe certamente commentato quest’annata particolare. Arrivò in Sardegna con la propria famiglia da Castel Goffredo nel 1936. Destinazione podere n° 16, strada 26 ovest, nell’agro di Mussolinia, l’attuale Arborea. In Continente faceva il servo, el famej in mantovano, quello che oggi verrebbe chiamato operaio.
Rina attualmente vive in un appartamento di un palazzo ben curato del capoluogo, con classici mattoncini rossi a vista, nel quartiere Sacro Cuore. Un tempo lo si chiamava Corea, come tutti i nuovi rioni delle città europee sorti negli anni ’50, in concomitanza con la guerra asiatica ufficialmente mai conclusa. Fu comunque il primo tra i moderni, figlio di un’epoca e di una stagione che per Oristano significò progresso nel terziario, palazzi tentacolari e agognata quarta provincia sarda, conquistata poi nel 1974. Rina risiede a Oristano fin dal 1956, anno in cui con la famiglia lasciò Arborea per s’arruga de is ballus, l’attuale via Aristana, nel quartiere storico e popolare di “Su Brugu”[1]. Ed ecco quindi che si scoprono conoscenze comuni, anzi, famigliari, perché ha vissuto, col marito Gino Sardo e i tre figli Natalino, Maurizio ed Enrica, a pochi metri dalla casa paterna di chi scrive. Mi accoglie come si conviene a una persona che si conosce bene ma che non si vede da tempo. Oristano sarà anche diventato un capoluogo di provincia con più di 30.000 abitanti, ma ha mantenuto le caratteristiche, o “le trasse” (is trassas in sardo) come direbbero gli oristanesi, riscontrabili in un paese qualunque, ben costruito sui rapporti umani.
Entriamo subito in argomento e mi spiega come e perché decisero di lasciare la bonifica per Oristano: mio marito non avrebbe mai lasciato Arborea. Noi ci siamo sposati nel ’49 e abbiamo vissuto a casa dei miei suoceri. Lui era nato per la campagna, ma il fatto che soffrisse d’asma l’ha costretto a trovare un altro lavoro.
Ed ecco quindi che Salvatore, dei Manunta di Montresta pionieri anche loro dell’agro di Mussolinia alla strada 26 – dove stavano i Sardo e i Morozzo – propone a Gino di entrare a lavorare alla SITA, l’azienda pubblica che a livello statale gestiva il trasporto pubblico[2]. Mio marito era entrato nella SITA nel ’53. Nel ’56 quando è passato effettivo siamo venuti a Oristano. Da quando ci siamo trasferiti non ha avuto più problemi. Viaggiava molto spesso verso Fonni e anche l’aria di montagna sicuramente lo ha aiutato. Fonni è un comune che sta a 1.000 metri sul livello del mare, il più in alto della Sardegna. Non a caso centro per villeggianti amanti della montagna e della buona tavola. Ci siamo così trasferiti in via Aristana dove avevamo una stanza e vivevamo insieme al padrone di casa. Il mio gancio, Gianni Sardo è non a caso figlio di Maria Antonia Manunta, sorella di Salvatore. Si può ben capire quindi come le relazioni di vicinato agricolo siano anche occasione di nuove unioni famigliari e di solidarietà nel momento in cui c’è necessità di spostarsi altrove, magari in un centro vicino in espansione dopo la fine della guerra.
Nell’immaginario degli abitanti dei centri rurali circonvicini, forse Oristano sarà stata vissuta come una specie di Milano, magari… a maggior portata di mano. Il palazzo So.Ti.Co. come Torre Velasca. Certamente il rango era riconosciuto: sorta intorno al Mille dai travagli di Tharros, Oristano era diventata la sede giudicale, capitale di un regno che aveva relazioni con le maggiori cancellerie europee, al tempo di Mariano IV ed Eleonora…
L’arrivo dei Morozzo in Sardegna e l’incontro coi veneti
Rina, nata in Continente, nel momento del suo trasferimento in Sardegna aveva appena concluso la prima elementare. Noi inizialmente dovevamo andare a Littoria, poi invece ci hanno mandato qua. Mio padre ci raccontava così. Su quanto ritrovato nell’archivio SBS i Morozzo non erano l’unica famiglia di Castel Goffredo. Vi erano anche i Capra. Rina mi dà conferma: sì, abitavano alla 2, vicino ai Michelon, ma sono comunque rimasti poco. Anche di questo troviamo conferma nell’archivio SBS. Fecero esattamente fagotto nel novembre del 1940. Tanti prima o dopo la guerra sono andati via. Loro erano proprio del paese nostro, prosegue Rina.
Anche altre famiglie sono arrivate dalla provincia di Mantova. Alcune oggi presenti, come i Bonisoli di San Giorgio o i Pellegrini di Roncoferraro. Altre, come i Capra, ripartite. Altre ancora finite in paesi diversi dell’Oristanese, come i Marcomini di Villimpenta o gli Stramieri di Suzzara, per un totale complessivo di 25 famiglie patriarcali. Siamo arrivati qui ad aprile. Mia mamma mi diceva che erano partiti il giorno del venerdì santo e che fecero quindi la Pasqua in viaggio. Siamo arrivati il lunedì. Lei si chiamava Angela Zanetti ed era nata a Tornata in provincia di Cremona. Eravamo in nove e in continente avevamo lasciato due sorelle. Siamo così arrivati nel podere della strada 26.
C’è da dire che i mantovani di Arborea non furono gli unici lombardi a popolare le campagna dell’Oristanese in quello stesso periodo. Il saggista Beppe Meloni ha dedicato un interessantissimo lavoro all’azienda di Costante Bianchi, imprenditore bresciano di Calcinato, che impiantò nella Valle del Tirso la “Società per Azioni di trasformazione fondiaria Antonio Bianchi”, portandosi al seguito una decina di famiglie di tecnici e agricoltori.
Sono ricordi lontani, ma chiari nella mente di Rina. Abbiamo trovato tutto nella casa: piatti, cucchiai, letti, materassi di crino, quindici galline e un gallo! Ci avevano dato tutto! Anche il maiale! Mia madre questo l’ha sempre detto. Mio padre ha trovato l’America. I nostri vicini allora erano i Betteghella, un’altra famiglia mantovana di Villimpenta. Con loro abbiamo fatto lo stesso viaggio per la Sardegna. Ci assegnarono un podere con casa colonica fresca di calce, talmente nuova che era piena di pulci. I Betteghella erano quattro fratelli, arrivati in quattro scaglioni diversi. Marcello, Italo, Fulvio e Laimo, però i primi tre erano arrivati nei primi anni ’30 e stavano alla strada 22. Laimo aveva quindi raggiunto i fratelli.
Più di qualche volta la Società Bonifiche Sarde, la S.p.A., che aveva progettato e realizzato la bonifica, si era servita delle stesse famiglie già presenti nell’agro per farne arrivare delle altre. Altri vicini erano i Casarin di Agugliaro in provincia di Vicenza. Da Rina ecco un altro aneddoto a tal proposito. C’era la vecchia Casarin. Alfonsa si chiamava. I veneti mangiano molta erba cotta. Io e mia sorella Bice la accompagnavamo a raccogliere l’erba. Prima però di metterla nel cesto le domandavo: “nonna Alfonsa bona l’è questa?” “Sì, mettila intel cesto”. La seconda volta: “nonna Alfonsa bona l’è questa?” “Sì cara, mettila intel cesto che l’è tutto bon”. Infine la terza volta mi fa: “Sì, mettila intel cesto che coto e conso xè bon anca un stronso” questo in veneto, racconta ridendo. Loro sono andati via dopo la guerra. Erano tre fratelli e una sorella, quest’ultima ha sposato un Urban. Ma la conoscenza si è fatta con chiunque ci fosse. Oltre ai già citati Betteghella e Manunta., un buon rapporto si instraurò anche con i Sandonà di Arcugnano, sempre in provincia di Vicenza, e i Deriu di Montresta.
I Morozzo erano arrivati da servi per diventare mezzadri. Però mio padre da giovane, oltre all’agricoltore, faceva il macchinista di trebbie. So che in estate andava giù nelle Puglie per la stagione del grano. Erano comunque tutti famej. Fatta la terza elementare tutti andavano a lavorare. Non avendo proprietà si spostavano dove il lavoro chiamava.
Tornano alla mente anche le pause invernali, al riparo dal freddo nelle stalle riscaldate dal fiato delle mucche. I veneti lo chiamano filò. In continente si andava a guciar, a sferruzzare. Mi dice Rina. Uscivi dalla cucina e andavi in stalla. E magari gli uomini giocavano a carte.
La scelta della Sardegna era comunque obbligata. Si partiva per stare meglio. I miei genitori erano contenti di essere venuti in Sardegna. Il lavoro c’era. Anche i miei fratelli erano contenti. Mi ricordo che appena arrivati mio padre mi diceva che bisognava fare i solchi, in modo tale che l’acqua scolasse, come anche nella Val Padana. Gianni Sardo fa notare come il passaggio dalla condizione di bracciante a quella di mezzadro era comunque una piccola conquista, a cui si aggiungeva la casa nuova. Mi ricordo che quando arrivava il fattore gli insegnava a fare i lavori e diceva bisogna fare così, così e così, riprende Rina. Il fattore rappresentava la Società. Era il responsabile sotto cui ricadeva il controllo di un’area dell’agro, a cui bisognava poi cedere la metà del raccolto.
Se qualche famiglia sofferse per la destinazione loro imposta – attraversare il mare, l’ignoto che forse si identificava con la stessa natura isolana dell’approdo, ecc. – l’arrivo in Sardegna fu ritenuta una fortuna da altre: non solo per il cambio di condizione sociale, ma anche perché le condizioni di vita nel frattempo nell’area erano migliorate rispetto a quando arrivarono i primi coloni alla fine degli anni ’20. Nonostante questo gli abbandoni per le dure condizione furono numerosi. Altrettanti gli allontanamenti disposti dalla Società per punire furti o abusi di qualche genere. Ce ne dà conferma la stessa Rina. Cita a esempio la famiglia T. Quando una vacca ha partorito e ha fatto due gemelli, uno lo hanno ammazzato per mangiarselo e l’altro l’hanno tenuto. La SBS come se n’è accorta li ha allontanati immediatamente. Questo me l’ha detto una figlia di questo mezzadro. Qualcuno aveva fatto la spia. O ancora la famiglia B: hanno fatto la stessa cosa. Li hanno mandati via tutti. Anche loro per un parto gemellare. Allontanati subito e sono andati a vivere a Oristano. In un primo periodo in stazione, nella carrozza di un treno. Una loro figlia prese una broncopolmonite e morì.
Il fratello disperso in guerra
La cosa che Rina non può certamente dimenticare è la morte del fratello in guerra. Marino (nell’archivio SBS risulta solo il nome Luigi, così come nel monumento ai caduti di Arborea in cui è citato tra i dispersi) non aveva mai lavorato in campagna. Quando siamo arrivati aveva 17 anni ed è andato subito a lavorare nelle officine della SBS. Andava a spianare con i caterpillar, allo stagno. Dopo è partito di leva militare nel ’39. Ha fatto sei mesi a La Spezia e poi l’hanno imbarcato come fuochista. Non è più tornato. È morto imbarcato sull’incrociatore Zara. Lo Zara era stato affondato nella battaglia di Capo Matapan, insieme al Pola e al Fiume, il 28 e 29 marzo 1941, a sud del Peloponneso, in Grecia. Nella rete internet, in un articolo dedicato proprio all’incrociatore, sono riportati tutti i nomi dell’equipaggio in gran parte sepolto in fondo al mare. C’è anche quello di Luigi Morozzo[3].
Ci diceva, quando era tornato a casa dopo una grande battaglia a largo di Teulada: “quando andiamo in missione ci chiudono a chiave. Quando c’è pericolo se si ricordano ci aprono. Altrimenti facciamo la morte del topo”. Alla stazione di Marrubiu lo doveva riaccompagnare in bicicletta mio fratello Memo (colui che nel’ 49 chiamerà il figlio Luigi Marino). Al momento della partenza non lo si trovava. Ci dissero che era andato a salutare i Betteghella e invece poi lo trovò Memo dietro un pagliaio che piangeva e diceva che non sarebbe più tornato. E di fatto così è stato. Mio fratello era del ’19 e aveva 21 anni.
Il dopoguerra e il rapporto con la lingua veneta
È una brutta storia. Una tragedia di guerra. Un conflitto a cui Marino non avrebbe voluto certamente prendere parte. Allora era così, e se la “patria” chiamava, anche se per una guerra di aggressione, bisognava partire. La cessazione delle ostilità riporta però le attenzioni ai lavori nei campi. Si vogliono dimenticare le brutte storie. La vita deve riprendere. I figli si sposano, le bocche da sfamare aumentano e il podere si fa sempre più stretto. La mia famiglia aveva sempre lavorato, ma a un certo punto eravamo in tanti, troppi nel podere. Così si decise di dividersi. Mio fratello Decimo faceva il trattorista nella zona di Oristano e aveva trovato sistemazione anche per i miei genitori a Tanca Serventi. Mia mamma e mio babbo erano andati da lui. Lì’ il capo azienda era un certo Ferrari. Mentre a Tanca Molino c’erano i Visintin e i Zambon.
Altri nomi veneti. Se le famiglie mantovane aspiranti alla mezzadria erano state 25, complessivamente quelle venete erano state 274. Gioco forza la lingua veicolare per tutti, mantovani compresi, era il veneto. Ma con dei distinguo a seconda del contesto.
Noi Morozzo in famiglia abbiamo sempre parlato il mantovano. Mentre mio marito parlava il suo e io parlavo il mio. I miei figli capiscono tutto, mantovano o veneto, ma non lo parlano anche perché cresciuti a Oristano. Il mantovano è molto diverso dal veneto. Per esempio i Betteghella sono mantovani, ma parlano un altro dialetto, più vicino al veneto veronese. Interviene nella discussione anche Gianni Sardo: io adesso penso a Enrico Morozzo invece, che parla un veneto bellissimo. Però si tratta di un’altra generazione che si è comunque mischiata con Arborea e quindi i ragazzi hanno imparato il veneto in Sardegna.
Rina torna alla carica e rivendica con orgoglio il suo mantovano. Quando però ci troviamo con i mantovani parliamo il mantovano. Io penso a Luigina, dei Poli altra famiglia mantovana di Sabbioneta, sposata a un Morozzo. Ma anche lei con i figli parla solo in italiano.
Lo scrigno dei ricordi. Tra fortini e campi minati
Nel frattempo il figlio Maurizio apre una scatola colma di fotografie e carica di ricordi e tempi andati. A ognuna di queste Rina rimanda un nome, una data, un luogo. Salta fuori anche una cartolina dell’incrociatore Zara. Ci sono volti di persone non più su questa terra. Sembra una surreale convocazione di famiglie che in bonifica non hanno lasciato un parente, ma solo una traccia negli archivi. I Bazzoni, altra famiglia di Roverbella. I Gattellaro, famiglia siciliana. Ed ecco una foto di quando Rina era bambina. La scuola a S’Ungroni, prima e seconda. E la terza ad Arborea. Facevo cinque chilometri a piedi e tenevo in mano i trùchei o trochéi, zoccoli in mantovano, per non consumarle. Al sabato fascista si doveva marciare dopo pranzo. Ai bambini che non abitavano vicino al centro servivano un pasto al Gallo Bianco.
Si ritorna però a parlare del periodo di guerra. L’atmosfera a Mussolinia, carica di militari per paura di uno sbarco alleato nel centro dell’isola, non era forse dissimile dal clima scanzonato ricostruito dal grande film capolavoro di Gabriele Salvatores “Mediterraneo”. Pensieri certo, rivolti a fratelli e padri impegnati nei vari fronti del conflitto. Ma anche preoccupazioni per la presenza dei campi minati, che fungevano quasi da calamita per i più indifesi e curiosi bambini. Alla 26 avevamo 5 fortini e si lavorava con i militari. Erano tutti continentali, però noi eravamo sfollati al Centro Uno, una delle borgate sorte nell’ex stagno del Sassu. Dovevamo andare a dormire lì. Il podere andava avanti con i militari. Vicino al fortino avevano una tenda. Non ci è mai mancato un uovo. C’erano veneti, mantovani, bergamaschi, etc. Più c’era la batteria al mare. Non ricordo bombardamenti, ma le tantissime mine presenti. Quelle che non sono riusciti a togliere le persone sono saltate per aria. Oltre alla Zambon, ricordo anche di un militare che era saltato per aria e che poi era stato seppellito nella primissima tomba al cimitero, nell’ingresso.
Disgrazie. Il conflitto farà i suoi morti anche dopo la cessazione delle ostilità. Le cronache del dopoguerra sono ricche di articoli che parlano di ritrovamenti fortuiti o volontari di ordigni bellici, di bambini soprattutto che li scambiano per semplici oggetti con cui giocare. In tempo di guerra era però caduto un aereo alla 26, in mare. Per vedere questo aereo io, mio fratello, mia sorella più grande e un fratello dei Betteghella siamo andati in spiaggia, passando per il campo minato. C’erano i militari e come ci hanno visto ci hanno rimproverato, soprattutto mia sorella che era più grande e che avrebbe dovuto avere maggiore responsabilità verso di noi.
Maurizio, il figlio di Rina anche lui presente alla chiacchierata, ricorda però un racconto del padre Gino: babbo mi diceva che di quell’aereo aveva smontato tutte le cannette, tutte in alluminio, dove passavano i fili. Prosegue Rina: nella cantina avevamo le casse di tritolo. Mio fratello Decimo si divertiva con un Betteghella a far saltare dei pezzi. Molta roba dalla guerra non era stata ritirata.“Dei ciondolini!” avrebbe esclamato Don Camillo sulla sponda destra del Po confinante col Mantovano, il personaggio di Giovannino Guareschi, che nel momento in cui gli si presentò un agricoltore di Brescello pentito di aver conservato come souvenir della guerra un carro armato americano aveva commentato il fatto con queste parole. In realtà il cingolato sarebbe dovuto servire per la rivoluzione comunista che covava tra molti ex partigiani, ma che non venne mai innescata. Qui però si era ad Arborea e le bombe avevano solo uno scopo ludico. In un volantino passatomi tra le mani nell’archivio della SBS, in cui è riportato il programma dei festeggiamenti del SS Redentore del 1953, si legge di fuochi pirotecnici che si sarebbero lanciati con delle granate. Probabilmente residuati bellici. A ogni modo – prosegue Rina – eravamo circondati da zone militari. Ricordo che alla fine della guerra era arrivato un gruppo di soldati siciliani affamati. Ci avevano preso tutto. Ma chissà da dove arrivavano. I miei fratelli erano andati dal capitano per informarlo che ci stavano distruggendo il raccolto. Ci disse di portare pazienza, che la pancia dovevano riempirla anche loro.
Usi mantovani e arborensi
Il tema del cibo mi porta a fare qualche domanda sulle abitudini culinarie mantovane dei Morozzo e delle famiglie arrivate dalla stessa provincia ad Arborea. Se molti piatti veneti ormai si identificano con la bonifica sarda, chissà se è rimasto qualcosa di lombardo nelle usi degli arborensi. Noi usiamo i tortei con succa e la sbrisolosa. Lì le zucche le mettono sugli argini, in modo che abbiano umidità ma non acqua. Ho portato i semi dal continente ed è venuta molto grande, ma in continente rimane più piccola. La zucca perché venga buona non deve avere acqua.
Non ho mai mangiato la zucca mantovana, ma posso sicuramente dire che quelle sarde della strada 8 di Arborea sono ottime. Il problema è riuscire a proporre questo ortaggio al mercato sardo, nonostante sia in equilibrio con le esigenze moderne dato il suo apporto ipocalorico. Un caro amico che le coltiva nei terreni sabbiosi alle pendici del Monte Arci, ha confermato la perfetta riuscita dell’esperimento. Peraltro può essere utilizzata da ingrediente base per molti dolci, in accompagnamento alla tradizionale pasta di grano o per fare i classici gnocchi di zucca.
Non a caso a Castel Goffredo, il già citato bellissimo paese di Rina, esiste una festa dedicata al gnoc, Re de Gnoc per la precisione. Al mio paese ricordo che facevano il “re del Gnoc”. Il “re del Gnoc” era il presidente. So che vestivano una donna con molti gioielli. Chi riusciva a toglierglieli erano suoi.
Sono ricordi frammentari, cristallizzati nella mente di una castellana fattasi sarda ma orgogliosa sempre delle sue radici. Oggi nel suo paese lo chiamano “Re Gnocco”. Un domani forse sarà “The King of Dumpling”. Comunque il “Re gnocco”, cito testualmente dal sito http://www.regnocco.it/, è:
«un monarca dai pieni poteri ma ridanciano. gran mangiatore e bevitore, tutto dedito alla felicità dei propri sudditi. Nel giorno della sua incoronazione egli domina incontrastato e gli stessi pubblici amministratori devono fare atto di devota sottomissione. […] Il Re lancia un proclama con il quale indice la gran festa ed il giorno dell’incoronazione pronuncia il Discorso della Corona. […] La tradizione vuole che l’ultimo venerdì di Carnevale, giorno di gran festa. siano allestite cucine operose e cantine effervescenti. Fino agli anni ‘5O gli gnocchi venivano impastati in Piazza; ancor oggi comunque essi sono cotti e conditi alla presenza del popolo affamato al quale sono distribuiti gratuitamente annaffiati da vino generoso a seguito dell’ordine del Re Gnocco appena incoronato. Sulla piazza del feudo si celebra il rituale di sempre; quindi il Re, appena incoronato, dà il via ai festeggiamenti, normalmente costituiti dalla sfilata di carri allegorici e maschere».
Insomma si tratta di un carnevale che coniuga tradizione e valorizzazione del prodotto locale. Sarebbe fantascienza proporre la zucca anche nella terra dei nuraghi, dei giganti o dei giudicati? Nel secolo scorso poteva sembrare assurdo col sangiovese e trebbiano (arrivati dalla Romagna, altra zona di provenienza dei coloni arborensi). Era così per la polenta, portata in Sardegna proprio dai veneti giunti in bonifica, così come per il riso, oggi la coltura prevalente nell’Oristanese. Premesso che non esiste nulla di più inventato della tradizione, sono lo studio e la creatività usata con intelligenza a fare la differenza. Vittorio Alpe e Arrigo Serpieri quando ai primi del Novecento scesero dall’Alta Italia nel Campidano di Oristano per compiere le analisi fisico-chimiche del terreno compresero al volo che questa zona della Sardegna sarebbe diventata la “Food Valley” dell’isola. E lo capirono anche i Morozzo di Arborea, agricoltori in Sardegna dal 1936, che continuano, innovandola, a portare avanti la tradizione.
[1]L’altro è “Su Pottu”, dentro le mura, caratterizzato da palazzi signorili e dalle numerose chiese. “Su Brugu” invece aveva le caratteristiche di un qualsiasi paese sardo del Campidano, case in ladiri (con mattoni di paglia e fango), lolle (portali) e stradoni dove poter giocare in strada.
[2]Poi preso in carico dalla SATAS evolutasi nell’attuale ARST.
[3]Viene però riportato come “Luigi Marozzo”.
di Alberto Medda Costella.