Segusino è un paese sulle Prealpi venete della Sinistra Piave. Questo centro, con poco meno di due mila abitanti in provincia di Treviso, è noto nel campo dell’associazionismo legato all’emigrazione per il suo gemellaggio con Chipilo, paese messicano dove ancora oggi resiste una comunità veneta con i suoi usi, costumi e lingua, anche se l’influenza della cultura messicana è andata in crescendo negli anni. I chipilegni, così sono chiamati i suoi abitanti, hanno buona parte delle loro radici proprio in questo comune della Marca Trevigiana. Era il 1882 quando questa storia ebbe inizio. I motivi che portarono circa settanta famiglie di Segusino e di altri centri vicini a lasciare la terra natia erano più o meno gli stessi delle altrettante, e più numerose, famiglie venete che 40 anni più tardi intrapresero il viaggio per la Sardegna: direzione Mussolinia. Se volessimo azzardare un paragone potremmo tranquillamente affermare che Chipilo sta al Messico come Arborea (il nome attuale del centro sardo) sta alla Sardegna.
A ogni modo arrivo a Segusino appositamente per incontrare Olimpia Zago, nativa di Arborea. Mi ha contattato conoscendo le mie ricerche e sapendo del mio interesse verso i coloni della Società Bonifiche Sarde giunti nell’isola tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 del secolo scorso. Il caso ha voluto che nel momento in cui abbiamo parlato per telefono mi trovassi a mezz’ora d’auto da dove Olimpia oggi vive con la sua famiglia. A Segusino appunto. Decido quindi di andare a conoscerla.
È una mattina di fine luglio e raggiungo il paese partendo da Rasai di Seren del Grappa, centro a due passi da Feltre nel Bellunese. Le montagne su entrambi i lati della strada ti accompagnano per tutto il viaggio. Nell’ultimo tratto si attraversa il ponte sulla Piave e passando per il centro di Vas ci si infila in galleria. All’uscita ecco Segusino, con la caratteristica torre campanaria che svetta su tutto l’abitato. Parcheggio l’auto in periferia. Il paese è piccolo e il suo centro si raggiunge a piedi facilmente. Indosso una polo rossa dell’U.S. Arborea, in modo da farmi riconoscere al primo colpo. Obbiettivo raggiunto. Da lontano una signora in compagnia di una bambina si sbraccia e mi fa cenno di raggiungerla. Ecco Olimpia, visibilmente emozionata di incontrare una persona che la riporta alla terra natale. È insieme alla nipote Aurora. Ci accomodiamo all’esterno del bar “Alla Pesa”, dove in una giornata di sole con una leggera brezza si può godere di maggiore benessere. Esordisce raccontandomi che i genitori erano molto amici dei miei nonni materni. Lei stessa in passato è andata a trovarli nel podere 253 della strada 17, poco fuori dal centro di Bonifica.
Olimpia è nata ad Arborea da genitori veneti. Gli Zago, famiglia del papà Oreste, arrivarono da Nervesa della Battaglia, mentre la mamma Carmela Follador raggiunse appositamente il marito da Valdobbiadene, centro oggi noto per il Prosecco. Me papà l’è andà a ciorse (prendersi) su a morosa invece che andar a sercarse una de Arborea. Non so come che abbia fatto. Se ga sposà nel ’48. Nel ’49 l’è nato me fradel, mi dice. Olimpia è però cresciuta nella città capoluogo e per quanto il veneto lo capisca, non lo parla fluentemente come tanti arborensi. Sono nata alla strada 4, ma quando avevo quattro anni ci siamo trasferiti a Oristano, in via Limbara. Lì ho vissuto fino ai 20 anni. Allora dove oggi c’è la Prefettura e il Consorzio Industriale era aperta campagna. Il porto non esisteva e ogni domenica io, miei fratelli e mia madre, prendevamo la bicicletta e andavamo ad Arborea per trovarci con zii e i cugini. Dopo con la mia famiglia siamo partiti nella terra dei miei genitori. Era l’anno che il Cagliari ha vinto lo scudetto. Il 1970, l’anno che la squadra guidata dal “filosofo” Manlio Scopigno e capitanata dal bomber di Leggiuno Gigi Riva fece esplodere di gioia l’intera Sardegna.
Gli zii Luigi, Giovanni ed Elia, invece erano andati a Cermenate, in provincia di Como. Mentre zio Secondo a Chieri, intorno a Torino, mi spiega. La storia di Olimpia non fa parte del gruppo di ex mezzadri che nei primi anni ’60 lasciò la Sardegna per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia, ma di un altro che nei primi anni ’50 cercò fortuna in altre terre dell’Oristanese. Gli unici zii che sono rimasti ad Arborea sono mia zia Enrica e mio zio Primo, mentre mio zio Mosè si trasferì ad Ardauli come autista delle corriere. Il figlio Claudio, mio cugino, è stato anche sindaco del paese.
Ma Oreste e Carmela, genitori di Olimpia, dopo aver comprato casa a Oristano, decisero di tornare alle origini. A Oristano me papà gavea trovà lavoro alla cartiera del Rimedio. E mi lavoravo in una cooperativa di maglieria. Avevo però cugine de parte de me mare che lavoravano in fabbrica in Veneto. Alora lore i me à dita: “se volete venir qua su per lavoro a ottobre assumono una trentina di ragazze”. Cussì semo vignui su mi e me fradello. E dopo l’è vignusti tutti. Per vegnire qua su, me pare ga fato carte e cartine. È andato via dalla cartiera per noi altri, perché non voleva avere la famiglia distaccata. Me pare ga sempre dito che sarià tornà in Sardegna. Lu volea tornar laggiù ad Arborea, dove se ga sempre trova ben, anca se a lavorar la tera l’è fatica.
Sono anche qui i giovani a trascinare i propri genitori, come nel caso delle famiglie arborensi trasferite nel nordovest italiano. Siamo stati qualche anno a Guia, in comune di Valdobbiadene. Io lavoravo in fabbrica e c’era una corriera che veniva a prendere gli operai per andare a Segusino.
Ma le difficoltà di adattamento alla nuova realtà non mancano. Se torno indrio, non torno più qua. Tropo fredo di inverno (ride). Qui ho trovato marito e tanta brava gente, ma all’epoca ho incontrato anche tanta cattiveria nei miei confronti. Il primo anno alla sera me veniva crisi di pianto. Go tegnuo duro perché go trovà subito lavoro. In fabbrica mi dicevano che dovevo star laggiù, invece de vegnir a rubar el pan a lori. Tutto all’incontrario dei nostri veci quando l’è rivai dal Veneto alla Sardegna. Olimpia fa riferimento ai racconti dei veneti, romagnoli e mantovani, giunti durante il ventennio a Mussolinia che venivano accusati dai sardi del posto di essere arrivati nell’isola per rubar loro il pane. Questo me lo confermò anche la compianta Elsa Boselli in una intervista del 2009[1].
Ad Oristano ci chiamavano polentoni, mentre qui più di qualcuno ci diceva che eravamo marocchini. Allora ero timida e ingenua e non reagivo. Marocchini era anche il termine che i veneto-pontini del Lazio utilizzavano in riferimento agli abitanti locali dei Monti Lepini[2]. Adesso che sono in pensione mi piacerebbe star là in Sardegna. L’ultima volta che sono stata ad Arborea è qualche anno fa, ma ho fatto un giro veloce. Qui però me son fata una fameja e ormai stago qua.
Ma il pensiero di Olimpia va alla sua giovinezza. Arborea è il paese dove sono nata, ma a Oristano go lassà il cuore. Son cressua là e le amicizie le ho fatte là. Me ricordo delle tante battaglie per la creazione della Provincia. Le ambizioni di Oristano per elevarsi a quarto capoluogo della Sardegna erano iniziate già dal secondo dopoguerra, ma il riconoscimento si concretizzerà solamente nel 1974. Ma anche su Arborea i ricordi non mancano. Non posso scordarmi la festa del Redentore che si faceva ad ottobre e la festa dell’anguria in agosto. Se la sagra dell’anguria ha perso importanza e numeri perché non più redditizia come un tempo (oggi il cocomero che i terralbesi chiamano sindria e gli oristanesi forastiu viene coltivata un po’ ovunque in tutta la Sardegna), la festa del Cristo Redentore non si festeggia più a ottobre, ma la terza domenica di luglio, proprio come a Venezia. Il motivo di questo cambio di stagione pare sia dovuto alle continue piogge che in quel periodo disturbavano la manifestazione[3]. E ancora. Mi me ricordo de un Parroco, che quando se doveva battezzare i bambini ghe metteva Maria in meso. Mi gavevo anca uno zio prete: Don Giuseppe Zago. La prima messa l’ha fatta ad Arborea, poi l’è andà a Verona.
È quasi ora di pranzo e prima di salutarla e di ripartire le chiedo come si percepisce, se sarda o veneta e se c’è differenza tra il veneto che ha appreso ad Arborea rispetto a quello con cui si confronta quotidianamente a Segusino. Sono di origine veneta, mi dice, ma mi sono sempre considerata sarda. Il veneto ho sempre fatto fatica a parlarlo, anche se mi sono accorta che il veneto di Arborea è diverso da quello di qua. Noialtri, originari de Arborea, abbiamo un altro veneto. I segusinesi parlano più con parole chiuse o aperte. Quel de Arborea l’è più simile a quel de Nervesa, el paese de me papà.
[1] “I disea i polesani magnapoenta xè vignui a rubarghe el pan”.
[2] Lo dice lo scrittore Antonio Pennacchi, autore del romanzo storico e autobiografico “Canale Mussolini”.
[3] A oggi non esiste nessun documento che provi questo.
di Alberto Medda Costella.