«Veneto il presidente, veneti i mezzadri, veneti buona parte dei tecnici», così ieri. «Qui il 6 gennaio se brusa la vecia, qui si mangia il baccalà e la pearà, e a ottobre ci si trova tutti alla sagra della polenta». Proprio così può ben dirsi ancora oggi, nonostante una virtuosa “sardizzazione” che non ha per nulla alterato l’autenticità identitaria della «veneta di Sardegna». Senza dimenticare che nel 2008 «la giunta Soru si era mossa per la salvaguardia della parlata veneta di Arborea», seppure non cogliendo l’obiettivo che resta sempre in campo.

Quelle virgolettate sono solo alcune delle battute del giornalista Alessandro De Bon, in forza a Il Gazzettino di Venezia, che, appunto, alla “veneta di Sardegna” ha voluto dedicare lo scorso 25 gennaio un’intera pagina del suo giornale. De Bon, giovane redattore amante delle particolarità socio-culturali della sua terra così come si sono sparse nel mondo, ha svolto la sua inchiesta interrogando il sindaco e chi altri ha studiato sul campo tradizioni e capacità di lavoro della comunità veneta piantata da quasi un secolo nel cuore dell’Oristanese.

A cento anni dalle cronache pubblicate sulle imprese eroiche della Brigata Sassari alla fine della Grande Guerra, Il Gazzettino – una testata giornalistica pressoché coeva delle nostre L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna (il suo primo numero apparve nel 1887, appena due anni prima del nostro maggiore quotidiano e quattro prima del giornale sassarese) – ripresenta al vasto pubblico dei suoi lettori uno spazio tutto sardo, ancorché a colori veneti, sospeso tra storia e attualità, con ampi e gustosi corredi fotografici.

Il reporter di questo che è, per autorevolezza e diffusione, il giornale principale del nordest italiano, valorizza ogni specificità dell’ex Mussolinia, che ancora conserva, a distanza di giusto novant’anni dalla fondazione, parlata, amore alle tradizioni e senso comunitario.

Sono infatti continui i rimandi a tali temi che hanno colpito il giornalista. Si parte dalla singolarità dei comignoli e dei tetti spioventi («i tetti antineve» sul golfo di Oristano), che portarono lo scrittore Elio Vittorini a definire stile di cartone un’architettura che poco aveva a che fare col clima e l’ambiente sardo, per poi passare ai nomi di alcune famiglie venete – i Pregnolato e i Bergamin, gli Schiavon e i Tamburin, i Peterle e i Bovolenta – che hanno fatto la storia di Arborea ed hanno trovato in questo lembo di Sardegna la loro America, con tutto il buono e il cattivo che questo avrebbe comportato.

Giustamente la tesi prevalente è che i continentali siano stati voluti da Dolcetta in quanto lo «spiccatissimo individualismo dei sardi», che non avevano in uso la famiglia patriarcale, non consentisse la convivenza tra parenti. Servivano braccia, il requisito essenziale per poter ambire a un lavoro a Mussolinia. Ma saper tenere una vanga in mano non era importante: molti braccianti, poi mezzadri, venivano da esperienze di artigianato, muratori o carpentieri. Era soprattutto la fame a spingere molti di loro verso l’avventura sarda. Arrivarono in primis i polesani, in secundis i romagnoli e i vicentini, questi sì voluti da Dolcetta. Sarebbe stata quindi la volta di veneziani, mantovani, friulani e siciliani (questi ultimi in gran parte ripartiti).

Si capì ben presto che il requisito numerico non era più sufficiente per poter lavorare in Sardegna. Occorrevano ora attitudini fisiche, professionali, morali e politiche, quelle valutate “utili” dal regime. In concomitanza con la creazione dei nuovi poderi e con l’avvicendamento dei vertici societari arrivarono i trevisani, con importanti minoranze romagnole e vicentine e qualche eccezione padovana e veronese.

Ma più ancora delle vicende storiche, ciò che ha colpito maggiormente il giornalista è stata la ragione che forse più di tutte ha spinto questa comunità a cementarsi: la dura fatica dei lavoratori, in un clima ancora insalubre, con una resa non sufficiente dei terreni e secondo gli incalzanti ordini dei tecnici. A supporto di tutto, temperando le asprezze della quotidianità, l’Opera salesiana, in bonifica dal 1936.

Ecco quindi ancora oggi la permanente vitalità di alcune tradizioni, dalla polenta, piatto centrale se non della giornata almeno del dna veneto di Arborea, al brusar la vecia, per poi passare al bacò, il “vino clandestino” prodotto da un’uva americana, che qualche illuminato agricoltore produce ancora e offre a veri cultori e curiosi, consentendo loro di fare un salto nel tempo. E la lingua veneta di Arborea? Giustamente Alessandro De Bon cita la proposta Soru, rimasta purtroppo lettera morta, dopo la fine di quell’esperienza neoautonomista. È una pagina ancora da scrivere. Torneremo a parlarne e magari lo stesso De Bon, che nella “veneta Arborea” ha promesso di venirci in visita, ne scriverà ancora. Noi lo aspettiamo, magari con l’inizio del prossimo corso che con l’Associazione dei Veneti nel Mondo abbiamo in mente di organizzare, alla faccia di chi la vuole morta.