Da Caorle ad Arborea. Gli Schiavon di Sardegna tra i pionieri della bonifica di Mussolinia
Lì a Venezia ghemo trovà un gruppo de gondolier. E un me fa: “ti non te si veneto”. E mi go risposto: “son nato in Sardegna, ma son veneto”. Niente da fare. Nol volea crederme. E alora go dito: “bon! Se vedemo un’altra volta”. Perché lu parlava el veneto deà, che non l’è el veneto che parlemo noialtri. È molto diverso…capio. Sentir parlar me mama, per esempio, e mi, iera differenza. Ea parlava secco secco. Comunque lu, el gondolier, me diseva: ‘ti te me toi in giro’. E alora mi de novo: “mi no te togo in giro, sol che mi son nato in Sardegna, però son de origine veneta”.
È Bruno Schiavon di Arborea a raccontarmi l’episodio, indicativo di quanto poco si conosca dell’enclave veneta nell’isola di Sardegna, nelle terre di partenza dell’emigrazione trevisana o vicentina, polesana o veneziana, ecc. nel mondo[1] e di come sia difficile esprimere la propria identità sulla base di gabbie mentali che non tengono in considerazione l’esistenza di un altro Veneto al di fuori dei confini geografici convenzionali. Non solo il Sudamerica, dunque, ma anche le varie zone di bonifica degli anni ’20 e ’30 del territorio italiano.
Lo incontro un pomeriggio di primavera nella sua casa, a ridosso del podere della strada 14 ovest, l’ultimo prima della laguna di Corru S’Ittiri. Osservando lo spazio dall’alto, con l’ausilio delle moderne tecnologie, non sembra di trovarsi in un posto diverso dalla zona di laguna da dove i suoi genitori partirono. Con Bruno ci conosciamo da tempo per aver fatto entrambi parte dello stesso sodalizio sportivo, l’ Unione Sportiva Arborea, lui come dirigente io come atleta. Ma è Lisa Lelli, in forza dalla Veneti nel Mondo a farmi strada, insieme alla fotografa Luana Rigolli, che qualche giorno prima mi ha accompagnato dalla famiglia Capraro.
A fianco a Bruno la moglie Rosetta Cecchetto. La sua famiglia è invece originaria di Brendola, uno dei centri della provincia di Vicenza che ha dato più braccia alla bonifica di Arborea. Oltre ai Cecchetto, i Bertacche, i Mattiello, i Dal Lago, i Cenghialta e gli Albiero. Con gli Albiero ierimo anca parenti. Eh varda che miss Sardegna nol volea mia farla? Mi dice, per collegarsi al discorso del marito. Bruno e Rosetta sono anche i nonni di Sonia Schiavon, Miss Sardegna nel 2012 che partecipò alle finali italiane a Montecatini Terme. C’è da dire che la Bonifica aveva già espresso nel 1998 come Miss Sardegna Stefania Michelutti, che porta anche lei un cognome non “tradizionalmente” sardo (friulano per la precisione), per ovvie ragioni storiche di questo territorio. Ma all’epoca non esistevano i social network e certi sproloqui venivano ristretti alle mura di un’osteria, «senza danneggiare la collettività, venivano subito messi a tacere», avrebbe detto Umberto Eco. Ora hanno lo stesso diritto di parola sull’argomento di un Premio Nobel. Sta di fatto che nell’anno dell’incoronazione di Sonia a reginetta era sorta una polemica nel Facebook, a dimostrazione di quanti anche sardi non conoscessero le vicende della bonifica di Arborea e delle immigrazioni storiche dell’isola. Sonia rappresenta la terza generazione degli Schiavon nati in Sardegna e, come tanti altri abitanti di Arborea, rivendica con orgoglio le proprie origini venete, ma non rinuncia a dichiararsi sarda[2].
L’origine degli Schiavon
Ma andiamo avanti e torniamo all’origine degli Schiavon, un nome evocativo, che si lega nientemeno che al passato della Repubblica di Venezia. Schiavon è cognome toponimico, ossia che deriva da luoghi o regioni. La vulgata maggiore vuol farlo risalire alla Slavonia, regione della Croazia. Schiavoni però erano anche i soldati mercenari della Dominante, tanto che ancora oggi il molo più importante di Venezia è identificato come Riva degli Schiavoni. Dal sito www.vecchiapadova.it leggiamo: «È probabile che finito il servizio militare molti di essi si siano stabiliti nelle nostre campagne e che assumessero per cognome il soprannome della loro provenienza, abbandonando i loro difficili cognomi slavi e da ciò sarebbe derivata la numerosa quantità di famiglie di questo cognome». Prendendo col beneficio del dubbio questa ipotesi, è però evidente che per schiavoni si intendendevano coloro che arrivavano non solo dalla Slavonia, ma anche dai territori adriatici facenti parte della Repubblica di Venezia.
Quello che sappiamo per certo è che gli Schiavon di Arborea sono arrivati da Caorle nel 1930. Questa cittadina oggi è un grazioso e rinomato centro di pescatori e località balneare, un tempo completamente circondata dal mare, tanto da essere reclamizzata come la “Small Venice”, la piccola Venezia, famosa per i suoi piatti di mare, i canali e le bellissime calli. Ma xè anca tante aziende agricole, che mi son andà a zirarle. Lu, me pare, xè riva nel ’30. Do soree mie xè nate là, prosegue Bruno. Quando che semo andai a Venezia semo andai anca a Caorle per vedere dove che abitava la fameja de Bruno. Adesso xè un albergo, interviene Rosetta. La bonifica strappò all’acqua la terra. La parte retrostante è in effetti ancora tappezzata da campi coltivati ed enormi case coloniche. Alcune delle più vicine al centro abitato sono state in effetti trasformate in albergo, altre sono rimaste semplici abitazioni, ma una buona parte, quelle più lontane dal centro, sono oggi completamente abbandonate e pericolanti. Quando che son andà mi nol iera pi la stalla. Mi la stalla la go ancora, ma no go l’albergo (ride). La prima volta che son andà a Caorle la pensavo grande come Pompongias. Riprende Bruno paragonando il paese dei genitori a uno dei centri colonici della bonifica di Arborea. E continua. Mi go anca un cugin prete che dice messa in quea ciesa vissin al mare. Me ga fato veder ‘ndo che iera rivà l’acqua. Fa riferimento a un’inondazione del Santuario della Madonna dell’Angelo, proprio in riva al mare oggetto di devozione dei locali e dei turisti che negli anni affollano questo incantevole centro dell’Alto Adriatico.
La vita a Mussolinia, cuore del Terralbese
Comunque le fameje de Caorle a Mussolinia iera proprio poche. A scorrere l’elenco dei mezzadri, scopriamo Bison, Faggian, Paccagnin, Pellegrin e infine Urban, la famiglia del calciatore Giovanni, classe 1974, che ha calcato i campi di Serie A di Cesena e Genoa. Lu ga zogà con mi qua ad Arborea. Dopo l’è andà su in Continente. Zogava nel campetto dei salesiani. Paccagnin invece l’è finii a San Quirico e Sanluri Stato. De là iera anca Sperandio. San Quirico è una delle borgate realizzate dall’Ente di Riforma della Sardegna (Etfas) negli anni ’50, mentre Sanluri Stato, a metà strada tra Oristano e Cagliari, non è altro che una piccola bonifica realizzata dall’Opera Nazionale Combattenti. Anche lì troviamo ancora oggi discendenti dei pionieri veneti, alcuni passati proprio per Arborea.
Prima iera tuta una famiglia. Uscivi a piedi e ti trovavi tutti. Adesso i va fora tutti in macchina. Iera bei tempi brutti. Riassume Bruno con un ossimoro la propria vita, faticosa certo, ma forse per il poco a disposizione quello è stato un periodo in cui si riusciva ad apprezzare le piccole cose e ad accontentarsi di quello che il buon Dio offriva.
La fameja de me pare iera tutti mezzadri, come che iera qua. Una volta che lu xè vignuo via ga portà via tutto. Quando xè tornà su, la prima volta, la casa iera za occupada e xè tornà de novo in Sardegna. Me pare xè scapà la prima volta da qua, che alora ieraMussolinia. Ga visto malaria e difficoltà. Ognuno pol dir quel che vol. Mussolini avrà fatto i suoi sbagli, però quando ha portato giù le famiglie qua, non le ga abbandonae. Poi quel che xè vignù dopo a mi nol me interessa. È vero che la bonifica sarda è opera della SBS, ma è altrettanto vero che il regime ha gestito questi trasferimenti in modo impeccabile. Ogni arrivo nelle terre redente veniva celebrato trionfalmente. Nel mensile “Brigata Mussolinia” del 1935 sì dà per esempio ampio spazio a un gruppo di famiglie romagnole appena giunte dal Continente.
Ogni famiglia prescelta trovava tutto l’occorrente nella casa colonica, compresa la legna per accendere il fuoco, simbolo di nuova vita. Il mito di Mussolini però, da non confondere con le simpatie (vere o soltanto ipotetiche) verso il regime e il fascismo, vive ancora nella testa di moltissimi ex mezzadri e loro discendenti. Sol che te dovevi lavorar. Interviene a ragione Rosetta. Tantissimi più volte sono stati richiamati con ammonimenti, altri rimpatriati per rinuncia alla durissima fatica o contro la loro stessa volontà, e qualche altro ancora messo letteralmente in mezzo a una strada.
La Riforma agraria. Il passaggio dalla mezzadria alla proprietà della terra
Ma anche la riforma degli anni ’50, con il passaggio dalla mezzadria alla proprietà dei coloni, innescò una serie abbandoni volontari dai poderi, forse per scarsa fiducia nei propri mezzi e nell’avvenire. Me ricordo Berardi – un ex mezzadro romagnolo di Cesena – che nol ga voluo passar ad assegnatario. Anche me cugnà Angelo Sperandio iera dea stessa idea. Dopo tramite nantri e altri ghemo dito,”ma cosa vutu far? Tanto la terra la devi lavorare comunque”.
Questi timori qualche anno dopo vennero amplificati dagli echi delle sirene delle fabbriche del nord, che incantarono i nuovi assegnatari per l’allettante stipendio fisso e ferie pagate. In quegli anni metà dei veneti di Arborea sono andati via, mi dice Rosetta. Mi e Rosetta, dice Bruno, siamo venuti qui nel ’61. Prima stavimo alla sie. Alora iera tanti poderi liberi. Qua de fianco al mio iera il podere de me cognà Poni. Altra famiglia romagnola di Cesena. Iera un’occasion, ma nol gavevo la forza di lavorarlo. Alora iera se lavorava col falcin, nol iera altri mezzi. Lu me disea:”sto qua fin che teo dà a ti”. I me lo dava perché iero sposà. E alora disevo: “cosa faso?” Go dito “vago impegnarme co altri sedici ettari da solo?”. E cussì go perso l’ocasion che dopo me costà 500 milioni di lire, quando allora con 9 milioni te portavi a casa un terreno. Te podevi benissimo ararlo e basta, ma a quei tempi iera brutto vedere i lavori non fatti. Anca se alora quei dell’Etfas cavolate i ne ga fato, perché i poderi spesso i li dava non a chi aveva forza, ma a chi iera amico dei politici. Mi son andà dal direttor a protestar. Lu me ga dito: “sior Bruno nol l’è compito mio”.
Sono anni in cui il parere politico prevale su quello tecnico. Negli archivi si trovano le relazioni di queste scelte illogiche, che in realtà un senso lo avevano. Da Ente di Riforma l’Etfas si stava trasformando lentamente in un carrozzone pubblico abbandonando la sua missione iniziale di elevazione sociale e professionale dell’uomo. Gli assegnatari erano anche elettori che potenzialmente avrebbero potuto esprimere una preferenza per il partito di governo: la Democrazia Cristiana.
Ma son comunque contento del mio podere. Insomma la vita l’avemo fata, ma ea non la vol tornar indrio, conclude Bruno indicando la moglie Rosetta, che replica: tornar indrio mi no de certo. Alla mattina ae 3 a monsere (mungere), finito a monsere via sotto i tunnel, dopo ae ondeze (undici) in casa. Ma iera vita quea?I tunnel erano delle piccole serre che consentivano il passaggio a un uomo soltanto strisciando per poter togliere le erbe infestanti. Quando poi il sole era alto si faceva la sauna all’interno. Poi andavo ad Arborea e la gente me disea: “stai già andando al mare?” Maria Vergine go dito…andavimo anca a ballare, ma di fatto non dormivimo mai.
I racconti di quel periodo ci portano insieme a Bruno a fare una riflessione sull’esito del passaggio, nel 1954,della SBS, e quindi di tutta la bonifica, dall’Iri all’Etfas, dalla mezzadria alla proprietà della terra per i coloni. Se infatti i poderi erano stati assegnati, tutto il resto era rimasto nelle mani della Società a gestione Etfas. Le fasce forestali alle Bonifiche Sarde. I canali al Consorzio. Iera tuta roba che nantri gavemo pagà. Quello l’è l’unico errore che i ga fato con la riforma, mi spiega. Un problema che le varie amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni hanno dovuto affrontare, con strade e piazze rimaste di proprietà della Società. E continua: me ricordo prima della riforma el caval de Giuliani. Lu passava in meso al formento (grano) col caval per veder se te gavevi fato ben. Iera cattivo. Mi infatti digo ogni tanto se ghe fussi na passada de Giuliani. Però disemo che chi faseva el suo dovere nol gaveva problemi. Rino Giuliani non era altro che il direttore della SBS fino al 1954. Il presidente, succeduto nel ’33 a Dolcetta, era quasi sempre a Roma. Giuliani di conseguenza era la persona più alta in grado della Società presente nella piana, tanto da essere individuato come principale avversario dai mezzadri nella lotta per la proprietà della terra con la Società.
Tra tradizione e modernità
Gli anni ’50 e ’60 rappresentano anche il periodo in cui gli usi millenari giunti dalla notte dei tempi cominciano a confrontarsi con la cultura del presente. Andavimo a ballare, ma anca noantri fasevimo el pan e vin, a man. Sensa fantoccio, sol che el tronco. E dopo brusava tutta la notte, racconta Bruno.
Usi che interessavano non solo i riti propiziatori di un buon raccolto la vigilia dell’Epifania, ma anche le abitudini alimentari, che, sia pure con moderazione, reggono ancora oggi, sfondando le porte della modernità. Ogni volta che vago in giro vojo on fià (un po’) de graspa? E alora digo guardate che io sono ancora veneta, sorride Rosetta. La grappa è infatti il distillato per eccellenza del Triveneto. I sardi storicamente sono sempre stati legati all’acqua vite, filu ‘e ferru, che si ottiene dalla distillazione del vino e non dalle vinacce. Tutte le matine come te alzavi se beveva un bicierin de graspa. Se fasea anca in casa. De giorno a lavorar e de note a far la graspa. Ghi n’emo fato un quintale una volta e xè rivà la finanza. Sembrava che qualchidun gavessi dito dove che iera. Ma ne go fato. Porca se ghe n’ho fato. Non so chi che me ga fato la spia. La distillazione casalinga era appunto proibita.
È però anche l’epoca in cui certi schemi, talune divisioni di classe, devono essere spazzate via. Si avverte la necessità e quasi l’urgenza di rompere con i vertici societari che avevano gestito la tenuta SBS senza soluzione di continuità dai tempi del regime fascista fino al 1954, ma anche e soprattutto col centro paesano, abitato prevalentemente da impiegati che non avevano mai voluto fraternizzare con i fanti dell’agro. Qualche altro sardo-veneto da me intervistato li ha indicati come “spiassaroti”, neologismo che rimanda all’assidua frequentazione dalla piazza di Arborea. Mi spiega Bruno: tra il paese e la campagna in passato xè sempre stata divisione. Tante de quee bote. I ne diseva puzzolenti. Sopporta sopporta e alla fine uno alla volta qualchidun ga dà (nel senso che si era arrivati alle mani). Il Circolo Ricreativo prima era solo degli impiegati. Prima tu non potevi entrare. Ad Albino Giorda una volta gli dissero di uscire. Poi lui a un ga piantà un papavero, ma un papavero (uno schiaffo molto forte, quasi un pugno)…dopo da lì il circolo è diventato di tutti.
Discorso diverso con gli abitanti del circondario con i marrubiesi e terralbesi lavoravamo fianco a fianco, anche se non ci vedevano tanto bene. Ma più con Terralba che con Marrubiu. A Luri e alla Tanca la sera iera botte. Versione peraltro confermata da Guerrino Capraro, ma baruffe più tra pari che tra dispari nella scala sociale.
Il sopravanzare del moderno non ha interessato solo l’integrazione di classe, ma anche la conservazione culturale, ciò che vale sia per il sardo che per il veneto residente e ormai “allignato” in Sardegna. Ma il “come” (anche in termini di rinuncia) lo racconta Lisa Lelli, intervenendo sulla mia domanda a Bruno e Rosetta relativa alla percezione identitaria di se stessi. Mi parla di una brutta esperienza avuta a scuola: perché il nostro professore delle scuole rimproverava i ragazzini delle medie che si professavano veneti. Diceva: “siete sardi perché siete nati qua”. I ragazzi rispondevano: “sì, però le nostre origini e tradizioni sono venete”. Lui aveva riunito i genitori e aveva fatto loro una lavata di testa spaventosa. Diceva che l’acqua con cui irrigavamo i campi e davamo da mangiare alle bestie era sarda e ai ragazzi bisognava insegnare di essere sardi. Tempi lontani, per fortuna! E tempi superati. L’identità è soggettiva. Certo lo spirito di unione e di un gruppo diverso per usi e costumi dall’altro può spingere a conservare valori e modi di comportamento con l’imprinting dei genitori e nonni. Le risposte di Bruno e Rosetta vanno appunto in questa direzione. Mi son veneto. Poi dopo uno può dire quello che vuole. Anche se son nato qui, son venuto veneto, son cresciuto veneto e sono ancora veneto, mi dice il primo. Anche se nati qui, siamo veneti. Anche se tanti ci dicono che essendo nati qua dobbiamo sentirci sardi, conferma Rosetta. Impossibile dar loro torto. Che ne direbbe il figlio di una famiglia sarda trapiantata a Venezia, o a Roma o a New York, se qualcuno gli imponesse un’identità non sentita? E che ne direbbe la sua famiglia orgogliosa delle origini e custode anzi di storie culturali e sentimentali uniche e irripetibili?
Le contraddizioni della nuova legge: minoranza schiaccia minoranza?
Le due ore di conversazione si concludono con una confidenza e speranza di Bruno: parlare la tua lingua vera e propria saria bel. Ma nol te lo insegna a scuola. A oggi però tra le lingue alloglotte meritevoli di tutela e valorizzazione, nelle intenzioni della Regione Sardegna non risulta il veneto, come si può apprendere dalla recente proposta avanzata in questi ultimi mesi, anzi, nelle varie cartine linguistiche come idioma alternativo all’italiano si inserisce per Arborea con molta superficialità il sardo. Eppure nelle idee della giunta Soru di dieci anni fa c’era, tanto da averlo messo per iscritto.
[1]Notizia del 22 maggio è che nelle scuole del Veneto si studierà la storia dell’emigrazione. Lo prevede un protocollo di intesa tra Regione Veneto, Ufficio scolastico regionale e sette associazioni venete per l’emigrazione, tra cui la “Veneti nel Mondo”. BIS
[2] Anche per questo sarebbe auspicabile che lo studio della Storia della Sardegna entrasse definitivamente nelle scuole per evitare la nascita di nuovi mostri social come quelli del 2012.
di Alberto Medda Costella.