Podere n°70, l’ultimo sulla sinistra della strada 18 di Arborea. Il numero è scritto in grande sul muro della casa colonica. Siamo a pochi passi dal mare e il vento che spazza per gran parte dell’anno la costa occidentale della Sardegna, qui si fa sentire più che altrove. I poderi più interni sono infatti maggiormente protetti dalle raffiche di maestrale, imbrigliate dalle fasce di eucalipto. “Il brusio dei frangivento”, per riprendere il titolo del romanzo storico di Bachisio Zizi, è la musica che scorre in sottofondo nella bonifica. L’ondeggiare rumoroso di questi alberi è un suono inconfondibile quanto la voce del mare.
I cugini Trevisan abitano qui, in questo luogo ameno dove il tempo si è fermato. L’aia è perfettamente in ordine, le galline razzolano liberamente e il galletto nero le osserva in disparte, quasi come un cane da guardia, pronto a cantare se arriva qualcuno. Della vecchia abitazione si riconoscono ancora alcuni elementi. El portego è ancora là, pronto ad accogliere il bue dopo una giornata di lavoro, dirimpettaio della vecchia stalla, che ha mantenuto le sue caratteristiche originarie: in evidenza il vuoto lasciato dal fascio littorio, abbattuto all’indomani della caduta del regime fascista, che un tempo faceva “bella mostra” al di sotto del timpano della copertura dell’edificio.
Arrivo in un pomeriggio di febbraio, sempre accompagnato dalla fotografa Luana Rigolli e Sonia Dalla Riva, in forza dalla Veneti nel Mondo per raccogliere questa testimonianza. A mettermi in contatto con Mario e Piero, padroni di casa, è stato il nipote Roberto Bergamin, che ha voluto avvertirmi sul tipo di parlata veneta degli zii. Un po’ diversa da quella della famiglia del padre arrivata da Vedelago. I Trevisan sono infatti originari di Meduna di Livenza, sempre in provincia di Treviso, ma al confine con la provincia di Pordenone. Poco male. Non vivo la cosa con preoccupazione, anzi, sapere che c’è qualche altra persona originaria della Sinistra Piave, come i miei nonni, stimola maggiormente la mia curiosità. Mia madre ha sempre giustificato la loro pronuncia col fatto che le origini dei Costella si perdevano nelle montagne friulane. Che cosa loro intendessero poi per friulano non è dato sapere. Di certo c’è che spezzavano, e spezzano, le parole come i Trevisan.
A questa differenza bisogna attribuire comunque una ragione geografica e storica. Ulderico Bernardi, sociologo e professore all’Università Cà Foscari di Venezia, per rimarcare le differenze delle due sponde del fiume, “sacro alla Patria” per alcuni, scrive: «quelle parole tronche che connotavano l’appartenenza alla Sinistra Piave, rispetto al dolce fraseggiare venezianeggiante della sponda trevigiana, erano un altro segno dell’identità linguistica e culturale. La pronuncia di cui si facevano beffe gli abitatori della Destra Piave nei confronti di quelli dell’altra riva, indicandoli come quelli che dicevano: el mus col caret l’è ‘ndà int’el fos, piuttosto che el musso col careto el xè andà sul fòso».
I Trevisan, sono comunque arrivati in Sardegna il 17 maggio 1940. Dallo stesso paese arrivarono anche i Rigo e i Nespolon. Di loro però non è rimasto nessuno. Entrambe le famiglie sono infatti ripartite, la prima negli anni ’60 e la seconda già nel ’52. Il paese de Meduna no l’è tanto distante da Vedelago. Però noantri spacchem le paroe – dice Piero venutoci incontro dalla stalla – qua ghemo sempre parlà in veneto, però adess no l’è pi come na volta. Adess l’è un po’ de rovigotto, un po’ de padovan, un po’ de vicentin…però se se capissi tutti disemo. A volte lo sa to, quando che riva quello dei “Trevisani nel Mondo” – fa riferimento al periodico mensile dell’Associazione di cui è socio e che ha una sua sezione anche ad Arborea – ghe xè quel che ga da do pagine e fa sentir el vecio dialetto. Però mi a volte non riesco gnanca a capirle quelle paroe lì. Za a lezerle l’è fatiga e dopo interpretarle.
Per una volta decidiamo di non disturbare i cugini Trevisan per chieder loro di visitare i caratteristici fortini della seconda guerra mondiale, che assediano letteralmente il podere. Ma soltanto per due chiacchiere. All’epoca si pensava che lo sbarco alleato dovesse avvenire in Sardegna, dopo che era stato ritrovato il cadavere di un aviatore britannico nelle coste della Spagna – allora governata dal Generalissimo Franco, alleato dell’Italia fascista – con dei documenti riservati che indicavano l’arrivo degli anglo-americani proprio sulle nostre coste anziché in Sicilia. Degli originari 90 “residuati bellici” oggi se ne contano un’ottantina in tutta la piana di Arborea. Quelli mancanti sono stati infatti abbattuti per i problemi che davano alla viabilità agricola in prossimità degli incroci. Quando hanno fatto i fortini, mio padre era già qua. Il poder in periodo de guera l’è sta sgomberà, parché iera tutto minà drio del bosco e noantri semo andai alla sedese da Panetto e dopo che i ga smilitarisà semo tornai. Qua, quando chi arava vissin alla costa i mandava avanti i bo, da soi, per paura che el che iera qualche mina fora dai campi. I è andai a torse le panocie col biròcio e una persona xè saltà per aria, dice ancora Piero. Noantri semo rivai nel ’40. Qua iera un de Rovigo che se ciamea Marangoni, cussì me disea me pare. Quea a volta che iè andà a torli i ne à andà dirghe se volea vegnir qua o andar in Libia. Lori i l’è rivai a Marubiu e quando che i l’è desmontai, ga catà il taxi con un bo e una barea, un caret con do rode. Semo andai là per un giorno, al manco cussì me à contà, a la sedese, sempre dove che ghe xè Panetto. Intanto qua i ga preparà tuto quanto, paia par tera per dormir. E dopo i se ga scuminsià a tirarse su le maneghe e a lavorar. I ga dà tre bestie: un porsel e do vacche. Iera dura. Sol che adess parlare coi giovani i te disi “Chi ve l’ha fatto fare a venire qua?” Me pare disea: bastea aver de magnare. Me pare quando che iera su in Veneto, andava a “rubare”. A svodare i cogolli, le redi che meteva là, sui fiumi per aver qualche bisato de magnar. Iera fame alora. Le robe brute i se ricorda sempre.
Tutti i mezzadri di Arborea sono arrivati in Sardegna per necessità. Chi ha veramente provato la fame dice sia un’esperienza da augurare a nessuno. È vero che la vita di un pioniere non è mai semplice, che costa grandi sacrifici, ma a volte può essere l’unica soluzione per ricominciare una vita e avere finalmente qualcosa da mettere in pancia.
Dopo la riforma ga scuminsià a respirare, ghemo comprà el trattore noantri qualche attresseto per poder andar avanti. Prima iera i bo, ma te fasevi poca strada con l’aratro voltaorecchio. E pian pianin, te sa, semo vignù su noantri, cuminsià a darghe na man e respirar. La staea nova non la gaemo fata, perché i voleva un mucio de skei. Mi go dito: è mejo che smeta e non vado a far un debito del genere. Piero non ha figli, così come il cugino Mario, 77 anni, appena sceso dal trattore per salutarci. Mi dice: semo andai in pension e i ne basta questo. Il poder lo ghemo affità ai miei nevodi.
I vicini di podere dei Trevisan erano Bergo, Finotto, Schiavon, Magnani, Tamburin, Petucco, e Boatto. E dopo iera anca Dal Pozzolo e Gaion, qui alla disdotto. Questa iera proprio una strada de veneti. Qua sardi nol iera gnanca un, spiega Mario. Dalla ventido in qua i se dava una man tra noantri. Dopo de là i se arrangiava con un altro gruppo de persone. Ierimo tutti uguai. Nol iera skei, ma sol che amicizia. I se voleva ben, prosegue Piero.
Alcune famiglie come i Boatto, i Dal Pozzolo, i Gaion, sono poi andate via, al nord Italia a lavorare. Tanti iè andà via nel ’60. Qualcun se ga pentio e l’è tornà indrio, come Genghini e Pozzato – dice Mario. I poderi lasciati liberi sono poi stati presi da famiglie sarde. Se te noti, in alcune fameje de sardi i ga fato el muro che divide. Invese noi altri no. Una volta qua iera tutto verto, sostiene. Desso i ga scuminsià anca i continentai, dice Piero ridendo.
Essi non hanno sentito il richiamo delle sirene delle fabbriche del Piemonte e della Lombardia e nemmeno quello di casa. Sono numerose le famiglie venete di Arborea che hanno lasciato la Sardegna per un posto da operaio o per tornare alla terre d’origine. Sol che un mio zio l’è tornà, ma el ierà maeà. Mentre me mare el volea tornar. Diseva “una volta che divente vecia voria tornar”, però l’è rimasta qua…anca se me pare i se ga fato la casa in continente nei ani ’70, ma lu ghe piasea qua, perché iera posto per andar a pescare e a caccia. Mi in continente son andà do volte, ma iero piccinin. Morirò anca mi qua, mi dice Piero.
Come è noto ad Arborea non arrivarono solo famiglie dal Veneto. Ci furono anche dei gruppi di romagnoli e mantovani. Andavimo d’accordo e anca lori ga scuminsà a parlar in veneto. El romagnolo se lo parla stretto l’è anca un po’ fadiga capirli, racconta Piero. Anca i furlani l’è fadiga capirli. Perché se noantri spacchem le paroe, quelli i ghe mete proprio poco. La maggioranza i ga dovuo imparar el veneto, dice Mario.
Chiedo come, da un punto di vista identitario, si percepiscano. Mario mi risponde che è nato a Mussolinia (ride) e Piero che si sente più veneto: mi digo la verità, coi sardi vado molto d’accordo, però me sento veneto, anca perché se ga frequentà sempre tra de noi. Anca se go degli amici sardi che dire amici xè poco. Ma se sentimo veneti, anca se nati qua.
Molti gli usi e le tradizioni che riportano alle Venezie. Come non giustificarli…Mario racconta che anche la sua famiglia faceva il falò per l’Epifania. I veci fea el pan e vin. Se fea un mucho e i piantèa un pal in meso. I metèa le frasche. Noialtri no ghemo mai meso el pupasso e nol fasevimo gnanca el canto. Una volta che iera brusà tuto quanto, el iera restà sol che le bronse, alora i gavè una stanga e i buttava alto cussì. Se iera tante cose, tante faive i diseva: tanto formento tanta biava, tanto vin…perché anca queo nol mancava mai. La tradizione vuole che dalla direzione che il fumo prendeva e dalla sua consistenza si era in grado di capire come sarebbe stato il raccolto dell’anno. Sono riti che si perdono nella notte dei tempi e che hanno a che fare col culto precristiano del sole. L’accensione del fuoco sul campo doveva aiutare la terra a risvegliarsi dopo il lungo letargo dell’inverno.
Piero mi parla invece dell’alimento principe dei veneti: la polenta. Una volta noantri se metèa sol che panocie bianche. Iera pi che altro i trevisani che i fea la poenta bianca. Una volta se metèa panocie de masci e femene per far la semenza, tre file de femene e una de masci. E quando cressea i tocava andarghe a cavar tutte le sime ai masci, cussì fecondea.
Nella vecchia stalla oggi i conigli hanno preso il posto delle vacche. Piero ci confida che non ha mai avuto la passione per questi animali. Sol che dopo che go venduo le bestie. Una volta me mare e me zie li metea nel rifugio (un fortino diverso da altri) per aver sinquesento franchi. E alora i vignia Toni Cunicio,che el iera de Teeralba. Lu ciapava tutto. Anca vovi, gaine e selvaggina. Iera una gaina drio morir? Te disea “dame qua che a porto via”. Mario mi parla invece di un personaggio da fumetto, la sua figura potrebbe essere quasi paragonata a quella dei un cowboy del vecchio west, una sorta di Buffalo Bill, solo che anziché sparare ai bisonti a cavallo, lo faceva alle lepri a bordo di una motocicletta. Una mossa di non facile esecuzione e come tale anche con dei rischi: dopo l’è andà a schiantarse con la moto e se à copà.
A riportarci alla contemporaneità è una scritta sul muro della stalla: Milan. La go scrita mi quando che go imparà a scriver. Mi son milanista. Piero, oltre che essere grande appassionato è stato anche un grande sportivo, come atleta dell’US Arborea. Mario invece racconta delle sue trasferte a Cagliari per vedere l’undici campione d’Italia nel ’70. Noi altri, quando che iera Riva, semo andai anca a vedere el Cagliari con Ugo Boschetto.
Arriva Adele, sorella di Piero. Porta il pasto per le galline. Queste le more tutte de vecchiaia, dice. Luana interviene per riportare tutti all’ordine per una foto. El fa ben. Noialtri semo i classici contadini…ancora. Qua se sta da Dio, senza confusion prosegue Adele con un gran sorriso. Ormai è quasi buio ed è tempo di levare il disturbo. Il gallo tornerà a cantare domani, all’alba, per annunciare un nuovo giorno di pace. Qui a borbottare sono rimasti solo i frangivento…
Articolo di Alberto Medda Costella – Foto di Luana Rigolli