“Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo poiché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli… Viva la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco!”
Daniele Manin
Manin alla presenza del popolo proclama la “Repubblica di San Marco”
Forse non tutti sanno che la Repubblica Veneta, dopo esser caduta nel 1797 per mano di Napoleone Bonaparte (“sarò un Attila per Venezia”), rinacque una seconda volta: era il 22 marzo 1848.
Come cita Wikipedia, “la Repubblica di San Marco fu uno Stato costituito a Venezia il 22 marzo del 1848 a seguito dell’insurrezione della città, che aveva avuto inizio il 17 marzo dello stesso anno, contro il governo austriaco. Ideatore della rivolta e figura chiave della Repubblica fu l’avvocato veneziano di origine ebraica Daniele Manin”.
Assunse su di sé la responsabilità della guida della neonata Repubblica di San Marco, il 22 marzo 1848, e con un manipolo di altri intellettuali resse le difficilissime redini di un governo provvisorio e tenne testa a un impero, quello asburgico, con un esercito fatto di volontari veneziani e veneti, di dalmati, svizzeri, soldati pontifici e napoletani. Diciassette mesi che gli sconvolsero per sempre l’esistenza. Eppure Daniele Manin, nella sua vita, avrebbe probabilmente voluto solo fare l’avvocato e occuparsi dei suoi studi umanistici e di trattati legali.
Talento precocissimo, si iscrisse quattordicenne alla facoltà di Giurisprudenza a Padova e in tre anni, nel 1821, conseguì la laurea in legge, dovendo poi attendere l’età adeguata per avere l’abilitazione a esercitare la professione. Nell’attesa, non si perse certo d’animo: formatosi coi classici della letteratura e della filosofia nella vasta biblioteca della casa paterna in campo Sant’Agostin (dove era nato il 13 maggio 1804) Manin conosceva – oltre all’italiano – il francese, il tedesco, l’inglese, l’ebraico, il greco e il latino. La famiglia – lui era il terzogenito di Pietro Antonio e Anna Maria Bellotto – era di origine ebraica: il cognome originario, Fonseca (sebbene alcuni storici ritengano che fosse invece Medina) fu mutato in Manin in seguito a una conversione avvenuta al tempo dell’ultimo doge della Serenissima.
Com’era d’uso al tempo, i convertiti presero il nome del principe (sotto l’egida del loro padrino, in questo caso proprio un fratello del doge Ludovico Manin), ed è curioso che la “vergogna” maturata da un Manin con la capitolazione dello stato veneziano nel 1797 sia stata in qualche modo riscattata da una persona con lo stesso cognome, derivato direttamente dal primo. Grazie alle sue pubblicazioni, a diciannove anni fu eletto socio corrispondente dell’Ateneo Veneto, “pensatorio” cittadino che rivestì un ruolo determinante nella preparazione ai Moti Risorgimentali. Nel 1824 sposò Teresa Perissinotti, di famiglia aristocratica, che gli diede la figlia Emilia e il figlio Giorgio: quest’ultimo, dopo aver combattuto – sedicenne – nel 1848, partecipò alla spedizione dei Mille e fu ferito a Calatafimi. Rinchiuso il 18 gennaio 1848 con Niccolò Tommaseo nelle Prigioni Nuove divenute carcere politico, Daniele Manin fu liberato a furor di popolo il 17 marzo successivo, per proclamare la rinata Repubblica (ovviamente nella sua versione moderna) cinque giorni dopo: “Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo – disse quel giorno in Piazza San Marco – poiché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli… Viva la repubblica! Viva la libertà! Viva san Marco!”.Eletto presidente, durante il lungo assedio diede prova d’intelligenza, coraggio e fermezza, anche dopo la decisione del 2 aprile 1849 di resistere “ad ogni costo” con l’assunzione per lui di “poteri illimitati”. Le cose non andarono come molti veneziani avevano sperato: costretto all’esilio dal ritorno degli austriaci, Manin visse a Parigi dando lezioni di lingua italiana, perdendo quasi subito la moglie Teresa e dì lì a poco la figlia, gravemente malata di epilessia.
Non rinunciò però al suo sogno di uno stato italiano: nel corso del 1852 incontrò il conte di Cavour, al quale lasciò intendere di poter abdicare alla sua posizione repubblicana in cambio di un impegno più marcato dei Savoia nella causa dell’Unità e dell’indipendenza italiana. Nel contempo si dissociò apertamente dalla “teoria del pugnale” mazziniana, ovvero la dottrina dell’assassinio politico, e prese le distanze anche dal federalismo antiunitario. Morì a Parigi il 22 settembre 1857, e le sue spoglie tornarono a Venezia – con quelle di moglie e figlia – il 22 marzo 1868. Dapprima il sarcofago fu ospitato tra le volte di San Marco; ma di fronte alle rimostranze degli ambienti clericali e dell’Accademia di belle arti, la giunta comunale fece costruire un mausoleo sul lato settentrionale della basilica, dove nel 1913 fu sepolto anche Giorgio.
di Alberto Toso Fei
fonte: il Gazzettino del 19/03/2018