Quando arriviamo nel podere Fettamelli capiamo immediatamente di essere nel posto giusto. Quà se ciapa le decision, sta scritto a caratteri cubitali sopra la porta dello studio d’azienda della strada 19 di Arborea. Il viaggio alla ricerca dei veneti di Sardegna non poteva trovare indicazione migliore. Giulio, el paron de casa, racconta che è stata la moglie di suo cugino a suggerirglielo: Mi volevo scriverghe ufficio, ma iera la femena de Claudio che ga dito: “noi altri semo veneti! Perché non scrivemo qua se ciapa le decision?”. È impossibile rimanere indifferenti a quell’insegna. Potremmo definirlo quasi un manifesto politico. Una rivendicazione identitaria di una cultura a volte osteggiata, talvolta ignorata dalle autorità preposte. Una volta xè passa un, e ga dito: “qua xè casa Bossi”. Ma a mi Bossi no me xè mai sta simpatico.
L’identità è soggettiva, opinabile, ma nessuno può certamente dirti cosa sei. Ognuno si percepisce in modo diverso. C’è chi dà maggior peso alla lingua usata, chi agli usi o al modo di lavorare. O ancora al cognome o “sangue in vena”. Chissà cosa salterebbe fuori in un ipotetico sondaggio tra gli abitanti della bonifica. Le risposte sarebbero certamente le più varie e curiose.
Abbiamo però il parere di Giulio. Egli dice che non ha mai voluto occuparsi di politica: “i la ga su con mi. Mi me ritegno de non esser sardo, perché son nato da genitori veneti. Son nato in Sardegna, stago ben qua. Ma è una questione mia de principio. Qua se te sbusi – indica il braccio – vien fora sangue veneto. Qualchidun me diseva: “ti te la ga coi sardi”. Ma no xè vero. Mi me sento veneto, ma questo nol vol dir che la go coi sardi. No xè che me sento orgoglioso de esser veneto…però nol sta a dirme che son sardo, perché sardo non sono.
Giulio, nato ad Arborea classe 1952, è in pensione da qualche anno. Il suo tempo ora lo occupa alternando il volontariato nella struttura dell’ex ospedale Carlo Avanzini – dove insieme a Mario Bergamin, cura con amore lo splendido orto – e occupandosi come norcino: in sto ano go copà disdotto masci in do mesi. Son andà da miei amici a Riola, Nurachi, Zerfaliu e Terralba. I ne à ciamà parché noi altri del mascio non butemo via niente.
Per i vicentini il mascio è il maiale. I trevisani lo chiamano porsel (nella Sinistra Piave porthel, con la lingua tra i denti). I polesani borsgato: Milan e i Nalli che xè rovigotti i lo ciama cussì, conferma. A seguito di altre testimonianze possiamo dire che ad Arborea si è creata una nuova lingua, un veneto-arborense. Non esiste ancora una parola che indichi questa parlata, come il tabarchino per il genovese di Carloforte e Calasetta, ma diamo tempo al tempo. Non c’è fretta per i neologismi. Interviene in nostro soccorso la moglie di Giulio: il nostro veneto ormai l’è tutto mastegà, parché semo rivai da tanti paesi, perciò non è più il dialetto vero – Maria di cognome fa Pivetta e la sua famiglia è originaria di Musile di Piave – ma me mama el iera mantovana. Son vegnua qua in mezo ai vicentin. Figurite che sembriot ghemo fato su. Mentre i mantovani hanno utilizzato subito il veneto, spiega che i romagnoli arrivati ad Arborea nel periodo della bonifica hanno sempre parlato in italiano. Me ricordo i Benvenuti, che iera de Cesena, e che tra de lori parlava il romagnolo, ma co noantri i parlava in veneto. Ma xè sta un caso raro, dice Maria.
Possiamo dire che il veneto ha fagocitato le altre parlate. Forse prendendo qualche prestito, ma mantenendo una sua base linguistica. Per capire quanto il veneto sia ancora presente nella testa di molti arborensi, Giulio racconta un simpatico aneddoto: i fioi lo capissi tutto, ma no i lo parla, magari qualche paroea che te usi in casa, qua e là, ghe sbrissia ancora parlar il veneto. Me ricordo de me fiol Valentino che quando che el iera in terza elementare ga scrito un tema in veneto. E la maestra, che el nol lo savea, ga domandà aiuto al maestro Braina. Lui iera sardo, ma el gavea sposà una veneta.
La famiglia Fettamelli è arrivata in Sardegna da Caldogno (Vi) il 2 ottobre 1937. Per un appassionato di calcio è impossibile non conoscere questa località, che ha dato i natali al fuoriclasse e pallone d’oro Roberto Baggio. I Fettamelli erano destinati all’Eritrea, ma come diverse famiglie venete, inizialmente indirizzate verso altre bonifiche, scelsero poi la Sardegna. Me pupà l’è vignuo qua che ierano sie fradei masci, mentre le femene xè rimaste su in continente. Come che l’è vignuo qua i ga dà un podere a la ventido. I dava i poderi in base al nucleo famigliare. Finia la guera xè rientrai tuti e alora, da la ventido, i li ga mandai qua.
I vicini di casa dei Fettamelli erano i Peterle, i Sardo, gli Andreotti e i Cenghialta. Con loro i rapporti sono sempre stati ottimi, così come con gli altri mezzadri di Mussolinia/Arborea, a prescindere dalla provenienza, veneti, romagnoli, mantovani o sardi che fossero. Discorso diverso con gli abitanti del centro, quasi due classi separate, con un grado di istruzione e tenore di vita differente. Giulio dà una parziale conferma: Li ciamavimo i piassarotti – da piazza – per questo motivo (ride). Versione condivisa nel 2008 dall’antropologa arborense Maria Gabriella Da Re, anche lei di origini venete, quando, in occasione del problema Rom che interessò la comunità, ricordò agli amministratori del tempo «i bambini scalzi, mocciosi e pieni di mosche» che i suoi occhi di bambina più agiata avevano incrociato nelle strade della bonifica molti anni addietro.
Con la riforma agraria del ’54 e il passaggio della Società Bonifiche Sarde (la S.p.A. che realizzò la bonifica) dall’IRI all’ETFAS, i Fettamelli diventano assegnatari di podere: me pupà l’è sta uno dei primi firmatari. Difficile non credergli. Dalle cronache dell’epoca emerge un breve scambio di battute con l’allora Ministro dell’Agricoltura Giuseppe Medici, presente ad Arborea il 23 dicembre 1954 per la consegna dei contratti: «Medici: Quanti siete in famiglia? Fettamelli: diciassette! M: Caspita! E quanti ettari avete? F: Ventitré. M: Contento? F: Contento!».
Giulio ricorda anche le frequenti visite di Enzo Pampaloni, il presidente dell’Ente di riforma sardo. Me ricordo che quando i vigniva ad Arborea la prima tappa iera in ciesa. Mi iero chierichetto e quando che te passavi tutti metea sinque franchi. Quando metteva l’offerta lui o non faseva rumore perché iera carta o te sentivi un rumor diverso perché iera i sinquesento franchi de argento.
Pampaloni era noto per far parte del Terzo ordine regolare di San Francesco e per essere devotissimo al culto mariano, tanto da far disseminare di stele votive alla Madonna i vari comprensori ETFAS: iera taca con Don Conti, el parroco.
È un periodo in cui non c’è soluzione di continuità tra stato e chiesa, tra democristiani e clero: i preti gaveva un grande potere con i politici. A qualchidun xè rivai a farghe aver un poder. A noaltri i ne ga fato firmare un documento che dopo 30 anni la terra diventava nostra. Ierimo in tanti. Me pupà xè rimasto qua sul podere solo con un fradeo scapolo. Infatti mi dovevo andar prete e come che ò finio la scuola me ga domandà: “ti cosa fetu Giulio? Ve tu prete o steto a casa ad aiutarme?” E son rimasto a casa. Andar arare coi bo ad arpegare no go fato in tempo, ma alora per i nostri veci iera dura. Lori però no ga mai pensà de andar via.
Sono tante le testimonianze di mezzadri che durante il ventennio sarebbero voluti tornare nel loro paese d’origine. Ma allora non c’era la possibilità. Negli anni ’60 saranno invece i parenti in Continente a chiamare i famigliari in Sardegna per invitarli a lasciare l’isola e andare a lavorare in fabbrica in Piemonte e Lombardia: “vignè su che ghe el to stipendio. El sabo e la domenica te sta a casa. Qualchidun xè tornà, ma xè tornae indrio sie o sete fameje, dice Maria.
Invese qua no se conosseva feste. Le uniche iera battesimi, cresime, fatte in casa. Un fiscio e le femene se organizzava per il menù. A racontarla fa vegnir fredo, parché la vita che i ga fato le done e iera dura. Lore fasea de magnar, i guardava i putei e lavorava in campagna. Oppure se spetava el fogo dell’Epifania. Noialtri brusavimo la vecia senza fantoccio. Mi me ricordo che per il pan e vin i Costella e i Puppin i cantava sempre. Ma diciamo che iera i Trevisani che ghe tegniva de più e saveva le cansoni e i te faseva riviver i tempi indrio. Oncuò i fa il falò, ma no te vedi niente. I fa la vecia e poi i va dentro casa a magnar. Alora invece iera la sodisfasion che una volta che te fea la vecia te magnavi lì, e man man che el fogo se sbassava andavimo vissin per scaldarse, perché iera fredo. Anca la pinsxa se cusinea nel fogo della befana. Qualchidun disea dee frasi davanti al fogo, ma nol me ricordo gnanca una.
Con l’abbandono di numerosi poderi negli anni ’60, l’enclave veneta di Arborea si apre all’accoglienza di numerosissime famiglie sarde, soprattutto dal nord dell’isola. Lì xè subentrà la politica della democrazia. I sardi che xè vegnui qua i ga dovesto adattarse al nostro metodo de lavoro veneto.
Negli anni molte cose sono cambiate. Gli abitanti sicuramente, ma anche il modo di lavorare. Esisteva maggiore solidarietà e ci si divideva le fatiche dei campi: noialtri no ghemo mai pensà de torse operai, anca parché no iera la possibilità. Anca el clima xè cambià, però cinquant’anni fa al 20 de marso iera el periodo che te seminavi el formenton e al ventisinque de aprile teo menavi a man o con la sappa. Dopo una giornata di lavoro gli uomini andavano tutti insieme nelle cantine di Riola e Nurachi a bere vernaccia. O a casa di qualcuno a mangiare cipolle, fagioli, coppa, pancetta e cotechini. C’era forse più armonia, maggiore sensibilità alle difficoltà dell’altro, ma soprattutto non c’era la paura del colesterolo.
Giulio e Maria Fettamelli (foto di Luana Rigolli)